Domenicale, 16 febbraio 2025
L’antica enciclopedia di Solino
L’Istituto della Enciclopedia Italiana celebra i cento anni dalla propria fondazione pubblicando, in fac-simile e con il corredo di un volume di saggi che illustrano il testo e la sua tradizione, una delle più importanti “enciclopedie” del mondo classico, quella di Gaio Giulio Solino (III secolo d.C.) che ha alimentato l’immaginario storico, geografico, mitico, letterario e figurativo del Medioevo, dell’età moderna ed è giunto sino ai giorni nostri. Questo trattato Delle cose maravigliose del mondo non è soltanto il ricettacolo di una millenaria tradizione di narrazioni di portentose parvenze, ma anche un piccolo scrigno di saggezze antiche, facendosi – ad esempio – testimone delle regole politiche che governano le lontane terre di Taprobana (oggi Ceylon): «Nella elezione dei Re non si fa conto della nobiltà, ma del universale parere di tutti: percioché il popolo elegge un che sia ricchissimo di buoni costumi, e che per molto tempi egli sia avezzo ad essere clemente» (volgarizzamento di Vincenzo Belprato, cap. LXV). Le Enciclopedie servono infatti a incorporare il memorabile e a conservare modelli degni del consorzio umano.
Solino raccoglie – come Clemente Alessandrino nei suoi Stromati – quel che resta di ogni traccia dell’antico. Questo ruolo di “certificazione” dell’ammissibile a fama è almeno, per la tradizione di Solino, altrettanto fecondo che la sua autorità nel tramandare lo stupore dei rariora di Natura, nelle ultime contrade dell’esplorabile: «Sono intorno al Nilo eziandio infinitissima copia de Stinchi, simili a’ Crocodili, ma piccioli, e stretti, e non necessariamente giovevoli da per tutto, percioché i medici col dare a bere di questi inducono lo stupore de’ nervi, e col medesimo estinguono la forza de’ veleni» (sempre nel volgarizzamento di Vincenzo Belprato, Venezia 1557, incluso nel volume).
Per molte vie i Collectanea rerum memorabilium di Solino nutriranno il Medioevo cristiano; basti pensare al libro XI delle Etymologiae di Isidoro da Siviglia: De homine et portentis; il suo mirabile congestorium è forse il prodotto più efficace del “telefismo” classico: le sue parvenze medicano il prodigioso che esse stesse incrementano: “danno luogo” e senso all’incerto tramandarsi della fama.
La costante “presenza” di Solino alla memoria dei secoli si rinnova negli Adagia di Erasmo, a loro volta “collectanea” di tutto ciò che la civiltà greco-latina ha tramandato di notabile. Il nostro autore appare una prima volta nella vivacissima scenetta dei cani che bevono al Nilo (Ut canis e Nilo, mise en abîme , quanto mai ironica, delle letture cursorie, poiché i cani leccano l’acqua correndo); e ritorna poi autorità incipitaria nel lungo adagio dedicato al Risus sardonius, nel quale Erasmo annota: «Ci sono coloro che affermano che nell’isola dei Sardi cresce un’erba particolare chiamata appunto “erba sarda”, una sorta di melissa. Certo il suo sapore è dolciastro, ma una volta gustata, essa fa storcere la bocca degli uomini in una smorfia di dolore, in modo che essi muoiono come ridendo. È ciò che Solino ha voluto significare, e con lui Servio il grammatico, commentando il verso del Thyrsis di Virgilio: “Io ti sarò più amaro che l’erba dei sardi”». (Adagia, 2401).
Sono tuttavia gli ultimi guizzi e faville di tizzoni che si vanno spegnendo; la fine di Solino, e di molti altri epitomatori di un mondo ormai favoloso, fu segnata da Rabelais nella sua ironica e acuminata rassegna degli adepti dell’abnorme signore del «Sentito-dire» che occupa gran parte del capitolo Comment au Pays de Satin nous vîmes Ouï-dire, tenant école de témoignerie nel cuore del Cinquième livre: «Là vidi, a quanto mi parve, Erodoto, Plinio, Solino, Berosio, Filostrato, Mela, Strabone, e tanti altri antichi e inoltre Alberto Magno, il giacobita, Pietro Martire, papa Pio II, il Volterrano, Paolo Giovio il valentuomo, Giacomo Cartier, Haiton l’armeno, Marco Polo veneziano, Ludovico romano, Pietro Alvarez e non so quanti altri storici moderni, appiattati dietro un lembo di tappezzeria a scrivere di nascosto belle frottole e tutto per Sentito-dire» [trad. Gildo Passini, 1925].
Quell’incerta fama del “Sentito-dire” diverrà presto, con l’acribia dei Lumi, un «errore». Leopardi citerà naturalmente Solino in più capitoli del suo Saggio sopra gli errori popolari degli antichi non meno che nella sua Storia dell’astronomia; ma apparirà ormai, quella fonte, un vano ricettacolo di credenze perente; e tuttavia notabile scrigno ancora di fantasie, di miti, di vaghe, poetiche apprensioni, poiché «ogni arcano è una sorgente d’illusioni». Di quegli «effetti meravigliosi» Solino sarà ancora prodigo: a proposito della magia, delle gemme, dei «figli del vento», non meno che dei pigmei, dei ciclopi e degli arimaspi, della fenice e della lince. E soprattutto Solino presiede sempre alla custodia del meraviglioso, in quell’infinito perlaceo che è la tradizione: «Nondimeno, a dir di Plinio, secondo altri, i tuoni e i baleni spaventavano le conchiglie, e danneggiavano grandemente le perle, rendendole altrettanti aborti. Solino abbraccia questo sentimento, nel che è seguito da Ammiano» (Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, 1815, capo XIII: Del tuono).
Ma forse il Solino più autentico, per il nostro oggi, è quello che con ironia e serioso impegno tuttavia, ci ha consegnato Edoardo Sanguineti, meditando sulla “biblioteca memoriale” degli scrittori, e su Borges e su Machen e Valery Larbaud, e soprattutto Solino: «E il Solino della pietra “Sessanta” dell’ “Ixaxar”, messo a frutto nel Sigillo nero di Machen, sarà oscuro appena per l’impiego cui l’adibisce l’allucinato e allucinante gallese, ma è proprio quel classico geografo che al liceo al minimo si nomina, quando addirittura, compito in classe, non si esibisca tormentosamente, sopra il banco, a squarcio, per perversa versione» (Scribilli, Feltrinelli, 1985).
Sì, in ogni piccola rifrazione di questo portentoso libro «si veggono color di sessanta gemme»! E ben torni dunque il latino, se ci porta il favoloso che non sappiamo più vedere.