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 2025  febbraio 16 Domenica calendario

Intervista a Borges del 1980

Nel suo modesto appartamento vicino alla Piazza San Martin di Buenos Aires, in mezzo alle sue enciclopedie e ai suoi cari classici, Jorge Luis Borges ha compiuto da poco 81 anni. Un gatto bianco e grasso gli tiene compagnia ed assiste ai suoi lavori, alle interviste, alle letture che gli fanno e, naturalmente, alle lunghe ore di solitudine.Dietro l’aspetto fragile, la maschera di cera del suo volto e quello sguardo strano, perso in contemplazioni interne, c’è un Borges incredibilmente fresco e pieno di vita. Curioso. Affabile e sempre ben disposto a chiacchierare. Un Borges che conquista immediatamente l’interlocutore.E non è vero, come dicono alcuni, che egli si chiude nel suo mondo di letteratura e di ricordi, è ben contento se qualcuno è disposto ad entrarci. Parla del suo recente viaggio in Italia. Del piacere con cui ha riscoperto il fascino dell’antica civiltà, le bellezze, anche se non viste, intuite, i sapori della buona cucina. «Così leggera e gustosa – dice – molto migliore di quella pesante cucina francese... In Italia, poi, si sente il Tempo, come in Egitto, come in Oriente... Si sente tutto il tempo trascorso... mentre altrove, in tanti altri Paesi è diverso. È come se tutti fossero un po’ l’America, tutto nuovo... E quando sono arrivato a Roma ho detto “Civis romanus sum”, anche se non ho una sola goccia di sangue italiano nelle vene. È così, tutti lo siamo».Borges, questo è stato un anno molto intenso per lei: viaggi, premi, conferenze, interviste e la promessa di un libro dedicato alla “Divina Commedia”...«Questo libro uscirà l’anno prossimo. In Spagna verrà pubblicato dalla casa editrice Espasa Calpe. Riunirà alcuni saggi su Dante e la Divina Commedia. Ho passato la vita leggendo e rileggendo la Divina Commedia. E, siccome non so l’italiano, l’ho letta in diverse edizioni. Perché gli italiani fanno qualcosa che in nessun altro Paese si fa. Io sono stato professore di letteratura inglese, che amo molto, e durante i 20 anni che l’ho insegnata ho avuto tra le mani molte edizioni di classici inglesi, per esempio quelle di Oxford. Ebbene, le assicuro che sono povere di fronte alle edizioni di classici italiani: quelle, per esempio, di Momigliano, Petrazzini o Sapegno. C’è una nota per ogni riga. Se non si capisce un verso, cosa che spesso avviene, si legge la nota e si afferra allora il senso. Credo che sia uno sbaglio tradurre in spagnolo. È il frutto di una specie di superstizione, e cioè credere che si tratti di lingue molto diverse. Invece sono dialetti che derivano entrambi dal latino. Sono lingue simili. Italiano e spagnolo sono più vicine fra loro del francese, che è una lingua di consonanti, non di vocali».Com’è stata la sua prima lettura della “Divina Commedia”?«Un po’ assurda. Mio padre aveva una biblioteca inglese e io credevo che l’italiano fosse molto diverso dallo spagnolo. In casa nessuno sapeva l’italiano. E così lessi Dante in inglese. Con passione, seguivo le note che formavano, una specie di enciclopedia medioevale. Dalle note tornavo al testo. Poi sono riuscito a trovare un’edizione bilingue, in inglese e in italiano. Arrivato al Purgatorio mi sono accorto che potevo fare a meno della versione inglese e che potevo leggere direttamente i più bei versi del mondo. Ho letto almeno dieci volte la Divina Commedia, sempre in diverse edizioni, perché ci sono sempre differenze nelle note, nei commenti. Credo che la migliore sia quella di Attilio Momigliano».Conosce l’edizione illustrata da Dorè?«Sì, Dorè è straordinario. Eppure, guardi cosa è avvenuto con Don Quijote. Le illustrazioni che egli fece per l’opera di Cervantes non hanno proprio niente a che fare col testo. A Dorè interessava il paesaggio e a Cervantes no. Era praticamente un cieco per i paesaggi. così Dorè lo ha arricchito di paesaggi... Nella Divina Commedia, al contrario, ci sono molti paesaggi... E che paesaggi!».Che temi indagherà nei suoi saggi?«Saranno su brani che amo o ricordo in modo speciale. Su alcuni personaggi. Ad esempio mi ricordo di Ulisse, del Conte Ugolino. E di questo verso stupendo “...Fuggendo a piede e ’nsanguinando il piano...”. Ricordo alcuni episodi del Paradiso. Comunque non sarà un lavoro ordinato. Sarà semplicemente una raccolta di note, di un innamorato discreto, di una persona la cui memoria è piena dei versi della Divina Commedia. Però io non so l’italiano... Una volta sono andato a teatro con Bioy Casares e Silvina Ocampo, a vedere un lavoro di Pirandello. Dopo il primo atto ce ne siamo andati via perché non capivamo niente. Se l’avessimo letto prima avremmo capito. È chiaro... gli attori recitano in fretta. Quando si legge, se non si capisce qualcosa, si torna indietro. Ho letto anche l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata e Croce».Lei crede che i giovani leggano i classici come si faceva un tempo?«Non lo so e non so neanche se conviene che un libro sia di lettura obbligatoria. Quando ero professore di letteratura inglese non imponevo nessuna lettura ai miei alunni. Volevo che amassero questa letteratura e dicevo loro “se un libro non vi dà piacere non dovete leggerlo”. Una volta un italiano mi disse che Dante non gli piaceva perché aveva dovuto leggerlo a scuola... Per questo credo che non debbano esservi letture obbligatorie. La lettura dovrebbe essere sempre ludica, una forma di emozione, di piacere... Quando si legge per forza poi si dimentica...».Un critico argentino ha detto che tutti gli scrittori argentini che scrivono bene sono stati influenzati da Borges. Ma anche fuori dall’Argentina si parla spesso della sua influenza... Cosa ne pensa?«Penso di non essere il maestro di nessuno, che sono discepolo di tutti... E poi... con l’andar del tempo, cosa s’impara? S’impara ad evitare certi errori, ma non a imbroccarla. Per esempio, io adesso scrivo in un modo più semplice di prima, non sono barocco, cerco di eludere metafore impressionanti. Evito certi vizi, ma non so se facendo tutto questo scrivo realmente meglio. Forse proprio in questi vizi consistevano le mie virtù: lo stile barocco, le metafore eccessive...».Che impressione le dà il fatto che i suoi lettori portino dentro di sé la memoria dei suoi scritti?«Be’ è una cosa che mi ha sempre meravigliato. Non avrei mai pensato che mi avrebbero preso sul serio. Quando ho pubblicato il mio primo libro nel 1923, Fervor de Buenos Aires in 200 esemplari, costati a mio padre 300 pesos (evidentemente era meno caro stampare allora) non ho mandato la mia opera a nessuno scrittore, all’infuori dei miei amici. Non l’ho mandata ai giornali, non l’ho messa in vendita, non la portavo in tasca... Evidentemente non pensavo che sarei stato conosciuto. Allora gli scrittori non pensavano alla fama, che era una cosa per i politici, per i militari... e ora per gli sportivi. È qualcosa di così strano, che ci sia della gente che mi legge in Italia, in Inghilterra».Non le piace essere letto e amato?«Sì, sì, certamente. Però cerco di dir loro che leggano migliori autori...».Lei ha sempre dichiarato che il sentimento dell’amicizia è fondamentale in tutta la sua storia... Parla spesso dei suoi vecchi amici... Ha anche degli amici nuovi? Degli amici giovani?«Sì, alcuni. Per esempio e soprattutto Maria Kodama, che è la mia amica, la mia collaboratrice. Ma, in realtà, conosco poca gente a Buenos Aires. Ho appena 4 o 5 amici personali. E poi ci sono quegli amici che non fanno altro che organizzare cene e feste... che m’invitano ai loro “cocktail parties”. Io chiedo loro di non invitarmi, perché non amo questo genere di riunioni. Sono molto timido. Cerco anche di evitare i congressi letterari, salvo, naturalmente, quando sono in luoghi lontani ed interessanti perché allora diventano un pretesto per andare a conoscere quei Paesi. Qui a Buenos Aires, sebbene faccia parte dell’Accademia di Lettere, non vado mai alle sue sessioni».Non ha mai scritto libri per bambini?«No, mai, è troppo difficile. Difficilissimo. Se si pensa a libri come Alice. Mi ricordo di un avvenimento accaduto qui in casa mia. Qualcosa che ha detto il nipotino della signora che bada alle faccende domestiche. Il bambino ha detto una cosa che corrisponde a una mentalità molto diversa da quella degli adulti. E che è abbastanza complicata. Ha detto – e si vede che mi vuol bene – (avrà sette o otto anni), “che peccato che il signore non sia un bambino come me, perché se lo fosse potrebbe avere delle vacanze”. È molto difficile mettersi su questo stesso piano, perché è un modo di pensare diverso. La gente crede che scrivendo stramberie piacerà ai bambini, ma non è così... Sono mentalità differenti».Allora, lei pensa che sono gli stessi ragazzi che dovrebbero scrivere per i bambini?«No, forse non farebbero altro che copiare dei modelli».Perché non ha mai scritto per il teatro? Tutta la sua opera è piena di situazioni estremamente drammatiche.«È vero. In realtà io sono un lettore di teatro. Il teatro di Ibsen, di Marlowe, Shakespeare, di Shaw, ma soprattutto di Ibsen. Comunque devo dire che la lettura mi ha sempre emozionato di più di qualsiasi rappresentazione. Una volta, ricordo che dovevo andare a vedere un film che avevano fatto sul testo di Cesare e Cleopatra di Shaw. Prima ho pensato di rinfrescare la memoria e ho riletto l’opera. Allora avevo ancora la mia vista. Lessi e piansi. Ero molto emozionato. Poi andai a vedere il film e provai una gran delusione. Avevano messo tanto di quel colore locale: sfingi, obelischi, tante decorazioni egiziane che quasi non si sentiva cosa dicevano gli attori. Il teatro mi piace come lettura. Come spettacolo no. Non ho scritto neanche romanzi, perché ne ho letti assai pochi, ad eccezione di Conrad, Tolstoi, Dickens e Don Chisciotte, naturalmente. Non leggo, quasi, romanzi. Invece mi piacciono moltissimo i racconti, e poiché non so l’arabo, ho letto moltissime versioni delle Mille e una notte cominciando dalle Memorie del Capitano Burton, la nota versione inglese».E la musica? Non ha mai pensato alla musica come creazione personale?«No, “caramba”, sono un sordo musicale... Mi piace Brahms, i “blues”. E non mi piace il tango. E in questo assomiglio a molti argentini».Lei è stato anche critico cinematografico, ama il cinema?». «Nel cinema ho avuto poca fortuna. Eccetto il film di René Mugica El hombre de la esquina rosada, che è superiore di gran lunga al mio racconto, sono stato sempre sfortunato. I miei argomenti sono andati in mano a registi mediocri... Il cinema, comunque, mi è sempre piaciuto molto. Da poco ho visto... – se si può dire “visto” essendo cieco – un film che si chiama Il deserto dei Tartari, ricavato dal romanzo di Dino Buzzati. Credo che la gente sia stata ingiusta con Buzzati. Dicono che è discepolo di Kafka... Può essere. E non c’è niente di male ad essere un discepolo di Kafka. Ma in Buzzati c’è ben altro, per esempio, c’è qualcosa di epico che in Kafka non c’è. L’ambiente di Kafka è burocratico mentre quello di Buzzati, in quest’opera, è un ambiente militare... È gente che sta all’ombra di una spada, aspettando l’ora del combattimento, attendendo le battaglie... Forse il procedimento è quello di Kafka, ma i temi sono completamente diversi. In Buzzati c’è il tema del coraggio e dell’onore... In Kafka c’è un ambiente meschino».Fra le pagine dei suoi libri ce ne sono alcune che rilette, le abbiano dato la stessa emozione di quando le ha scritte?«Non lo so. Non rileggo mai ciò che ho scritto. E poi in casa mia cercherebbe invano un mio libro. Qui non ci sono libri miei».Non riserva uno spazio ai suoi libri?«Neanche per sogno... Io rispetto troppo le biblioteche... Come potrei osare di stare a fianco di Virgilio o di Dante... Non sono matto... Non sono nessuno... Credo che succeda a molti scrittori. Tutti quegli scrittori a cui piacciono i libri altrui e non i propri...».E il Borges viaggiatore, dove è stato di recente?«Ho avuto un’esperienza straordinaria in Estremo Oriente. Sono stato invitato da una fondazione ufficiale del ministero dell’Educazione. Loro hanno preparato tutto il programma in base a un mio libriciattolo Cos’è il Buddhismo... Mi hanno portato in tanti posti, ho potuto parlare con monaci buddhisti, sacerdoti scintoisti, suore. Ho visitato santuari, città, giardini, il Mare del Giappone... È stato bellissimo».Borges, quando lei torna in Inghilterra o negli Stati Uniti trova molte trasformazioni?«Tutto il mondo è in decadenza. Credo che avesse ragione Spengler in Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente). Anche qui in Argentina stiamo declinando. Credo sia un peccato che l’Europa abbia perso l’egemonia durante queste vere guerre civili che sono state le due guerre mondiali... È un peccato. Adesso siamo alla mercé di due Paesi che sono stati grandi nel passato, ma che ora non lo sono. Sono appena grandi potenze: Russia e Stati Uniti. La Russia ci ha dato Tolstoi, Dostoievsky, e tanti altri, e gli Stati Uniti ci hanno dato Emerson, Whitman, Melville, Poe ed Emily Dickinson... Adesso sono Paesi, credo, abbastanza mediocri. Non conosco la Russia direttamente, ma l’ american way of life, soprattutto – e non dico Nuova York o San Francisco, che sono grandi città – diciamo il Middle West, che è una regione straordinariamente mediocre, be’, questo modo di vivere non fa sperare molto nel futuro».Quali sono le città che sente come sue?«Molte, Buenos Aires, Montevideo, Ginevra, Austin nel Texas, poi San Francisco, Nuova York, Edimburgo e Londra naturalmente. In molte di quelle città, in Svizzera, negli altri Paesi europei, soprattutto, ogni angolo è diverso. Invece qui, da noi, tutto è uguale. Le città si rassomigliano tutte, con strade che hanno lo stesso nome, stessi monumenti, stesso tipo di banche... Recentemente ho voluto anche conoscere una vecchia città normanna... perché ho avuto degli antenati normanni...».Che origine ha il suo nome?«Portoghese, i miei cognomi, paterno e materno, sono portoghesi. Borges vuol dire borghese, ha la stessa radice di Edimburgo, Amburgo, città, castello, borghese, borghesia... Qualcosa che forse non sanno tutti è che ho studiato l’anglosassone, inglese antico, e così posso dare anche il nome anglosassone di Londra e di Roma. Londra si chiamava Lundenburg e Roma era Romeburg. Roma e poi “burg” l’elemento germanico, loco castello, come la città di Burgos in Spagna, che ha la stessa origine. Dunque i miei due cognomi sono portoghesi. Borges e Acevedo. Acevedo, il cognome di mia madre, è ebraico-portoghese. In un libro sugli ebrei portoghesi appare questo cognome e ce ne sono anche altri, come Pinedo, Ramos Mejìa, Pereira, Ocampo, tutti cognomi molto conosciuti in Argentina, tutti provengono da ebrei portoghesi».Se lei potesse chiedere qualcosa di miracoloso, con possibilità di ottenerlo, cosa chiederebbe?«Mi piacerebbe poter leggere, recuperare la vista. Non leggo dal 1955. Pensi che quando mi hanno nominato direttore della Biblioteca Nazionale trovai un tesoro di 900 mila volumi. Avrei potuto decifrare tutto quel tesoro, leggere tutti quei libri e invece non potevo più leggere. Su questo fatto scrissi anche una poesia:Nadie rebaje a làgrima o reprocheestà declaración de la maestria de Diosque con magnifica ironiame dio a la vez los libros y lanoche(nessuno riduca a lacrima o rimprovero / questa dichiarazione della maestria di Dio / che con magnifica ironia / mi diedea un tempo i libri e la notte).Sì, mi piacerebbe tornare a leggere... E continuo a comprare libri. Ho comprato l’Enciclopedia Brockhaus, una delle migliori del mondo, perché, quando ero giovane studiavo tedesco e volevo comprarmi quest’enciclopedia, ma non avevo denaro. Ora ho il denaro, ho comprato quell’enciclopedia, ma non posso leggerla».