Robinson, 16 febbraio 2025
Intervista a Anna Ferrauta, psicoanalista
Mi è capitato di respirare il fumo della psicoanalisi. Quella condizione in cui ci si sente contemporaneamente protetti e smarriti. Un sapere fatto di relazioni e di concetti; di affermazioni a volte drastiche e coinvolgenti dove la posta in gioco è quella del paziente: i suoi segreti, i suoi dubbi, le sue instabilità, il suo Altro che convive come un ospite di cui farebbe volentieri a meno. Quante parole, quante illazioni per narrare tutto questo come fosse l’ultimo approdo per una vita interiore minacciata dal nostro disagio, dal nostro star male. Ho letto con grande sorpresa un libro che sembra voler diradare quel fumo. Una finestra sulla psicoanalisi (edito da Raffaello Cortina) non è un libro “contro” ma “dentro” il suo corpo dilaniato da mille tendenze e scuole, fin da quando Freud ne fondò il canone. Lo ha scritto Anna Ferruta, psicoanalista schiva e attenta alle frasi che pronuncia: «Sa» mi dice «svolgo un mestiere dove le parole hanno una densità particolare. Possono indicare una via di uscita o franare in una sorta di fallimento».
Che ruolo assegna alla parola che salva?«Definiamola la parola che cura e che necessita di attenzione e ascolto, più che la parola che salva. La psicoanalisi è nota come talking cure, la cura della parola. Il rischio è che diventi una parola disincarnata, intellettuale, che trasmette soprattutto dei concetti, mentre deve garantire un transito di emozioni tra due soggetti».Non è semplice.«Non lo è, perché fin dall’origine abbiamo paura di essere invasi, dominati e colonizzati da un altro soggetto. La parola è un buon ponte purché veicoli non soltanto un significato ma qualcosa di emotivo che può essere condiviso».Lei sostiene che la parola che si scambiano l’analista e il paziente ha qualche somiglianza con la parola poetica.«La parola poetica contiene un senso perché è un suono e un significato di cui ci nutriamo nella relazione con un altro. D’altra parte la parola poetica vuole esprimere senza persuadere».È molto complicato distinguere tra persuasione e espressività.«Però l’arte è in grado di farlo e in qualche modo la psicoanalisi si muove verso quella direzione».Non ritiene che proprio l’emozione esponga al fraintendimento? Posso emozionarmi davanti a un verso mediocre, un brutto quadro, alle parole di un influencer.«È vero, ci si può emozionare senza che la nostra vita cambi di un niente. È l’emozione senza un futuro. Una pubblicità concepita per emozionarci, che chiede attenzione e coinvolgimento, ha lo scopo di persuaderci. C’è poco di autentico nella persuasione».L’“ascolto”, come forma di accoglienza dell’altro, che ruolo ha nel suo lavoro?«Quando si parla di ascolto bisogna intendere anche il silenzio del paziente. Significa che c’è uno spazio per la sua soggettività in una relazione con l’altro. Senza la relazione un essere umano non avrebbe una vita psichica. E la psicoanalisi opera in funzione di questa vita psichica. Enzo Morpurgo che fu, insieme a Luciana Nissim Momigliano, il mio analista, sosteneva che lo psicoanalista dovrebbe avere la capacità di relazione con l’ altro senza ferire e senza dominare».È complicato riuscirci.«Molto, ed è il motivo per cui quello dell’analista è un ruolo temuto: perché esercita un potere. C’è una persona che si affida e si mette a nudo comunicando qualcosa di molto intimo. Se non vi è rispetto per questa intimità si possono combinare disastri».Colpisce il concetto di tempo in psicoanalisi: il tempo che trascorre durante la seduta, quello della durata dell’analisi.«C’è il rischio dell’analisi interminabile, cioè del trasformare il rapporto tra paziente e analista in un rifugio che non evolve mai. Se ne occupò inClaustrofiliaElvio Fachinelli, che fu tra l’altro uno dei miei primi professori».Un’analisi non può durare in eterno.«Per quanto lunga, un’analisi ha una fine. Quanto alla singola seduta, il tempo è predefinito, concordato con l’analista. Questo può essere letto in due modi: espone il paziente all’esperienza della separazione ma anche a una necessità».Nel senso?«Di contenere l’analisi in tre quarti d’ora o un’ora, che è poi il modo di interrompere una fusione. Come nel sonno e nel sogno c’è l’alternanza di momenti di grande intimità e di separatezza. La natura ci ha fornito questa duplice modalità. Però in una seduta il tempo lineare è sospeso poiché, nelle parole del paziente, si intrecciano continuamente passato, presente e futuro».Quando parla del tempo non lineare lo riferisce anche al tempo dell’inconscio e del sogno?«Certamente. Il sogno mescola tempi diversi. Posso sognare qualcuno che non c’è più o me bambina, o nel sogno immaginarmi più vecchia di quel che sono».Il sogno e l’inconscio sono esperienze attraverso cui conserviamo il nostro passato.«Un passato senza concatenazioni e senza evidenza empirica».Il linguaggio attraverso cui il sogno si esprime è ermetico, lei dice “criptato”. In che misura possiamo renderlo intelligibile?«Il sogno è la porta principale – anche se non la sola attraverso cui passa il lavoro psicoanalitico. Il sogno, dice Freud, è una forma di pensiero che segue altre modalità: non giudica e non calcola. Si limita a trasformare».Trasformare cosa?«Sbloccare la vita psichica, scoprire attraverso il sogno le potenzialità impreviste che un essere umano possiede e spesso non sa di possedere. Il sogno non è soltanto un’esperienza della mente. Altrettanto rilevante è il suo configurarsi come esperienza del corpo. Il sogno è la via regia per l’inconscio, è un prodotto psichico senza il contributo della coscienza, il quale “parla” anche attraverso il corpo. Freud diceva che il sogno è un groviglio di esperienze sensoriali ed emotive. Appartiene alla dimensione psicosomatica. Non si può sognare a comando. Quello che mi ha sempre affascinato della psicoanalisi è la sua natura di doppio viaggio: nasce dal corpo, diventa mente e ritorna al corpo».“Pensare per immagini”, cito il titolo di un suo articolo, evoca il cinema. Che risorsa è?«Sono appassionata di cinema. È il sogno che pensa per immagini. Ma anche durante una seduta accade che si pensi per immagini, cioè si dà forma a qualcosadell’inconscio non ancora esperito in un modo che possa essere descritto secondo modalità logico verbale. Sono soprattutto gli adolescenti nella fase della tempesta ormonale a richiamarsi in qualche modo alla potenza delle immagini e alla musica».Lei cosa voleva fare da grande?«Avevo in mente due cose: o l’attrice o la psicoanalista. In fondo fare la psicoanalista fu per me un modo di mettere in scena fantasie inconsce che diventano consce. Non a caso Cesare Musatti parlava del teatro della psicoanalisi».Dove è nata?«A Conegliano Veneto, ma vi ho vissuto solo pochi mesi».Ha iniziato molto presto a occuparsi di psicoanalisi.«È vero, lessi Psicopatologia della vita quotidiana a 14 anni».Mi scusi, come arrivò così precocemente a quel testo?«Non lo ricordo. Probabilmente fu un suggerimento scolastico. Nella mia infelicità di adolescente scoprii il valore e il peso di quel libro. E lo scoprii forse anche in relazione a una famiglia un po’ chiusa».Suo padre cosa faceva?«Era direttore di banca. Lo seguivamo in giro per l’Italia a seconda dei suoi impegni lavorativi».Avevate un buon rapporto?«Sì, era un uomo silenzioso. C’è un ricordo di lui che mi commuove. Lasciò tra le sue carte una copia del 1946 di Se questo è un uomo di Primo Levi».La interrompo. Lei prima citava Morpurgo e Nissim con cui ha fatto psicoanalisi. Erano ebrei come Primo Levi.«Sì, ma fu un caso che scelsi loro o forse c’era di mezzo il mandato involontario di mio padre, che nel libro appose una dedica struggente: se le mie figlie ora ignare troveranno tra le carte questo libro cerchino di comporre e affrontare le loro sofferenze e i loro dispiaceri sapendo che non sono nulla a confronto di quelle patite in questo libro».Si è chiesta perché proprio quella dedica?«Vi ho letto il rispetto che aveva per la sofferenza, il cui sottinteso era: se potete, se ne siete capaci, prendetevi cura degli altri. In fondo ci sono messaggi che arrivano senza il bisogno di essere esplicitati. Penso che la mia vocazione per la psicoanalisi derivi anche da questo rispetto per la sofferenza».La sofferenza è stata spesso affrontata dalla religione.«Ci sono delle similitudini».Come definirebbe la guarigione?«Non ho una definizione. Piuttosto è il prendersi cura che mette in moto nuovi equilibri nella psiche e nel corpo. Insomma non parlerei di guarigione ma di ripetuti assestamenti».La guarigione è una condizione provvisoria.«Siamo in continua trasformazione con l’ambiente e quando stiamo male vuol dire che un equilibrio psicosomatico si è alterato»Nella sua lunga esperienza di analisi quali sono le patologie più diffuse che incontra?«Dipende se parliamo di bambini, adolescenti o adulti».Scelga lei l’ordine.«La nostra società di fatto impedisce che i bambini vivano l’esperienza interiore come una forma creata da loro. Si preferisce l’ammaestramento al gioco spontaneo. Un componente quest’ultimo su cui è acutamente tornato più volte Donald Winnicott. Quanto alle maggiori forme di sofferenza psichica che riscontro tra gli adolescenti c’è la non voglia di vivere ossia la possibile “morte psichica”».Ci si arriva come?«Attraverso un progressivo rigetto di tutti i rapporti sentiti come prevaricanti. È come se il soggetto giovane sentisse il proprio inconscio colonizzato dalla famiglia, dall’ambiente esterno, dalla scuola, dagli amici e dagli estranei e reagisse ritirandosi dal mondo, che è ancora un modo per salvaguardare un minimo la propria vita psichica. Dopo di che subentra quella non voglia di vivere alla quale facevo riferimento».Anche negli adulti è così?«Negli adulti la perdita del senso del reale prende soprattutto la forma della depressione. L’isolamento si trasforma in autodistruzione».Lei parlava del rispetto per la sofferenza psichica.«È un presupposto per entrare in una sorta di comunicazione inconscia. La sofferenza si riconosce meglio se in qualche modo si è attraversataquell’esperienza».Accennava alla sua infelicità adolescenziale.«Un sentimento che mi ha portato al distacco dalla vita quotidiana. In quegli anni avvertivo la difficoltà ad esprimermi, come se la mia voce interiore si fosse smarrita prima ancora di conoscerla e di darle una forma».È stata dura?«Anche quello fu un viaggio. Non direi un’iniziazione ma una prova. Poi affrontata negli anni dell’università e con l’aiuto appunto dei due analisti».Luciana Nissim aveva conosciuto personalmente quella sofferenza.«Fu deportata ad Auschwitz insieme a Primo Levi. Come vede tutto in qualche modo torna. Una delle prime frasi che Luciana pronunciò entrandovi fu Ich bin Ärztin, sono un medico. È ciò che le ha permesso l’umana sopravvivenza in quel posto e che ha ispirato il suo modo di prendersi cura degli altri».C’è anche fragilità dell’analista.«Siamo esseri umani con le nostre storie attraversate dai dubbi. Anche un analista è alla ricerca di certezze e la relazione inconscia con il paziente può contribuire a trovarle. Mi accade di pensare l’analista come un “malato immaginario”, un soggetto che vive per “conto terzi”. La seduta allora diventa la scena teatrale di un dialogo tra due entità che cercano di comprendersi. Non è sempre detto che ci riescano. Ma quella scena è l’occasione per ricominciare a sentirsi vivi».