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 2025  febbraio 16 Domenica calendario

Dieci anni dalla morte di Luca Ronconi

Luca Ronconi era già malato e fragile, nel 2012, quando al Piccolo stava lavorando a uno spettacolo tratto da Eptalogia del quarantenne (allora) drammaturgo argentino Rafael Spregelburd. Ricordo che in una di quelle mattinate entrò a teatro, nella penombra si piantò al centro del palco, come un albero, si guardò intorno e disse, con il tono basso più tipico della sua voce: «È quest’altro mondo l’unico mondo in cui riesco a respirare». C’era tutto Ronconi, o molto di Ronconi, in quella frase: l’unico mondo che è il teatro e il respiro di cui il teatro necessita; ma anche la penombra e la mezza voce erano Ronconi.
Uno dei suoi attori più grandi (e amati), Franco Branciaroli, ha detto che Ronconi era stato un attore non eccelso, «ma al mezzo tono nessuno al mondo era meglio di lui, era lui che ti faceva la battuta... e a te bastava ripeterla». Parlando di mezzo tono, Branciaroli intendeva il tono che si usa a tavolino, quello che non richiede uno sforzo fisico, ma che detto da Ronconi rivelava subito l’intonazione esatta. L’attore Leonardo De Colle, che lavorò con lui nel 2000 al Sogno di Strindberg, parla di una voce del pensiero che stava dietro la battuta. C’era, in quella scena sul palco del Piccolo, l’aspetto fisico botanico di Ronconi: difficile immaginare una figura umana più vicina a una pianta di ulivo. Lo disse Adriana Asti: «Luca ama molto le piante, lui stesso è una pianta: è misterioso come un albero, è misterioso come un cespuglio». Negli ultimi quindici anni Ronconi si divideva tra Milano (era direttore artistico del Piccolo dal 1998) e un paesino dell’Umbria, Casa del Diavolo, prossimo ai boschi, ai torrenti, ai cinghiali, agli ulivi, alle lepri.
Un paio d’anni prima dell’Expo milanese, Ronconi aveva proposto al Corriere uno spettacolo sull’attualità: si trattava di scegliere un numero del giornale, di una giornata qualunque priva di fatti eclatanti, e di rappresentarla contemporaneamente, di notte, in varie stazioni della metropolitana milanese. Il direttore, Ferruccio de Bortoli, mi chiese di andare a trovarlo e ricordo che rimasi colpito dall’idea di considerare, per la «messinscena», tutte le pagine, compresi gli annunci funebri: mi chiedevo come fosse possibile dare espressione teatrale ai necrologi. Sergio Escobar che, come direttore del Piccolo, è stato da subito il suo «complice», racconta che il progetto non si fece per ovvi motivi logistici: lo spettacolo doveva prevedere il flusso in entrata e in uscita degli spettatori nei diversi treni in movimento.
La follia del metrò sarebbe stata, in linea con la sua poetica, l’ennesima sfida impossibile che Ronconi continuava a lanciare a sé stesso a partire dall’Orlando furioso, ridotto da Edoardo Sanguineti nel 1969 e destinato a essere un successo mondiale: rottura dei limiti del palcoscenico, mobilità, simultaneità di tempi e di spazi, durata prolungata all’infinito, spettatori a contatto diretto con le azioni e i personaggi. Tutti gli ingredienti della gigantesca macchina a scena totale e molteplice che Ronconi aveva costruito in altri spettacoli notissimi, come Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus nel 1990 al Lingotto di Torino e Infinities, tratto dalle opere del matematico inglese John Barrow e andato in scena nei capannoni industriali della Bovisa nel 2002.

È vero che siamo nella sua fase matura, ma era lo stesso Ronconi a individuare strette analogie tra gli anni della consacrazione grandiosa e gli esordi. In Prove di autobiografia, un libro paradossale per una persona tanto estranea all’autobiografismo, pubblicato da Feltrinelli nel 2019, il curatore Giovanni Agosti mette in guardia dal prendere alla lettera le confessioni di Ronconi, nemico della verità tanto da finire probabilmente per depistare persino sé stesso sulla propria vita. Ci sono comunque dati non discutibili. Tra questi, la nascita a Susa, in Tunisia, l’8 marzo 1933 da un padre, Giovanni, artigiano del ferro battuto e proprietario di un’officina al Monte dei Cenci a Roma, e da una madre, Fernanda Nardi, insegnante di lettere e autrice di novelle, romanzi, poesie rimasti inediti.
Con la madre fu un rapporto, più che realmente affettivo, «intellettuale», fatto di poche parole e di nessuna intimità («è una donna che non ha mai avuto molto interesse per l’amore»), come Ronconi raccontò nel 1973 a Dacia Maraini in un’intervista centrata sulla sua infanzia. Rimase per lui romanzesca la figura del padre, visto non più di due o tre volte e descritto come donnaiolo giramondo tra Parigi, l’Etiopia, la Bulgaria, rimasto vittima di un siluramento nell’agosto 1943 su un piroscafo diretto in Africa.
Ben sapendo della sua leggendaria riservatezza, restai ammutolito quando, in un mezzogiorno dell’ottobre 2013, a tavola con lui alla Trattoria Torre di Pisa, in via Fiori Chiari a Milano, capii inaspettatamente che, sofferente per la dialisi, Ronconi aveva voglia di rimuginare (avrebbe potuto farlo, credo, con chiunque altro) sulla sua vita remota e mi parlò dell’infanzia con un risentimento doloroso, quasi una disperazione. Mi chiedevo come fosse possibile che un intellettuale di quella levatura e di quella lucidità, con tanta vita vissuta e tanti riconoscimenti alle spalle, superati gli ottant’anni, provasse ancora uno strazio così forte nel ripensare alle ferite dell’infanzia: mi venne in mente la rabbia verso la madre che manifestava ancora il vecchio Gadda in certe interviste televisive. Leggendo l’autobiografia, avrei ritrovato quel risentimento, ma come stemperato da un più sereno senso di gratitudine per la madre, che sarebbe morta nell’82 («è stata la persona più importante della mia vita fino a quando non ho scelto il teatro»).

Ritornando a quel pranzo, lo rivedo infelice e depresso, per lo sfinimento fisico che lo portò a dire, al commensale pressoché sconosciuto che io ero per lui, che avrebbe voluto farla finita al più presto. Lo diceva con la stessa voce traballante e cupa, incerta, con cui fino a mezz’ora prima aveva guidato i ragazzi della scuola. Quella mattina mi aveva concesso di assistere per un paio d’ore alle sue lezioni su Petrolio impartite ai giovani del Piccolo, nella sala Brecht della sede storica di via Strehler 3. Il romanzo incompiuto di Pasolini gli somigliava molto anche per le zone oscure, per la stratificazione e per quella struttura a brulichio su cui insisteva Pasolini («Io vivo la genesi del mio libro», aveva scritto a Moravia, un po’ come Ronconi avrebbe potuto dire di sé).
Disse una volta di essere non attratto ma «incuriosito» dal teatro di Pasolini (che mise in scena nel ’93), ma Petrolio era un’altra cosa, ne parlava come di un «gioco di specchi e di sdoppiamenti» e di un libro «dal respiro largo e dagli occhi aperti». Forse per questo, quel giorno, sul banchetto da cui seguiva le recite dei ragazzi tormentando una matita tra le dita, Ronconi teneva il nuovo libro di Oliver Sacks, Allucinazioni, che aveva in copertina il disegno di un grande occhio luminoso. Non escludo di essere rimasto impressionato dalle frasi drammatiche pronunciate da Ronconi al tavolino del ristorante, anche perché venivano dopo la straordinaria, calma precisione e la leggerezza con cui il Maestro aveva comunicato, fino a poco prima, con gli studenti. Un ragazzo, durante la pausa, mi aveva parlato dell’«insegnante» Ronconi come di un cervello velocissimo: «Siamo sempre a rincorrerlo – diceva – senza arrivare mai a raggiungerlo, è un bersaglio che si sposta in continuazione...».
Venendo al punto di contatto tra inizio e anni ultimi, quel che Ronconi vedeva in sé come costante era appunto l’analogia tra il movimento dell’opera («che per me sta alla base del fatto teatrale») e la sua storia personale, tutt’altro che statica o stanziale. Nel capitolo iniziale della sua autobiografia, intitolato Non mi aspettavo da nessuno il bacio della buonanotte, Ronconi si sofferma anche sull’epoca del collegio a Pratteln, nel Cantone di Basilea, dove, finite le elementari all’Aquila, era stato collocato dai genitori ormai separati. Ronconi ricordava quei tre anni come un periodo di isolamento vissuto però da «principino», al riparo dalla guerra: «Non avevo amici. Non ne ho mai avuti» (le amicizie, in realtà, ci furono, anche se furono sempre tormentate). In una fotografia del 1943 è a Chiasso seduto, pantaloncini corti, sulle scale di una villetta, le mani aperte alle tempie, assorto in una sua ostentata inquietudine.
Il movimento di cui si è sempre detto partigiano l’ha sperimentato subito: nei viaggi, non di rado avventurosi, da Roma fino alla frontiera, in treno con la madre o affidato a una imprecisata «signora grassa»; prelevato a Chiasso e portato in auto a destinazione, sul confine tra Germania e Francia. Il giorno in cui per la prima volta fu accompagnato dai genitori a Pratteln, Luca era in treno con la madre, mentre il padre stava a poca distanza in un’altra carrozza, e quando a Chiasso i vagoni vennero divisi, finì chissà dove: «Da quel giorno non l’ho più rivisto».
Mi soffermo sugli anni della giovinezza, perché sono i meno noti di Ronconi e però pieni di rivelazioni, mentre sappiamo quasi tutto del grande regista che verrà, l’innovatore e il deus ex machina geniale ma accusato di dispendiosa megalomania, votato all’impossibile, i trionfi, le collaborazioni con Gae Aulenti, Mauro Avogadro, Gabriella Zamparini, Paolo Radaelli, Margherita Palli, Riccardo Bini, Giovanna Buzzi, e con Franco Quadri, Umberto Eco, Luigi Nono, Tullio Pericoli e chissà quanti altri, senza contare gli attori, a cominciare da Fantoni, e le attrici, a cominciare da Nogara (l’amata Anna), Fabbri, Guarnieri e anche qui chissà quanti altri e altre. E il cursus honorum, dalla responsabilità della Biennale Teatro di Venezia, con Grotowski e Wilson, al Laboratorio teatrale di Prato, alle varie direzioni, Stabile di Torino, poi Roma, infine il Piccolo. Non si finirebbe mai di citare nomi e titoli.
Fatto sta che prima di fuggire da sua madre per darsi al teatro, Ronconi fa in tempo a ereditare da lei la voracità della lettura: più di tanti suoi colleghi teatranti, Ronconi rimane un lettore formidabile. Verrebbe da dire che è in primo luogo un lettore, un lettore decostruttore al modo degli strutturalisti, anche se a differenza di tanti critici formalisti anni Sessanta e Settanta, alla scomposizione faceva seguire un processo inverso di ricostruzione o di ri-creazione, ed era una ricomposizione del testo che realizzava a modo suo (spesso illuminante). Se non gli ha trasmesso quello che si dice un amore materno, la madre deve avergli comunicato l’amore per la letteratura, visto che lo stesso Ronconi ammetteva che tra gli 11 e i 12 anni aveva «letteralmente divorato tutti i libri di casa». Tra questi, Goldoni, Ibsen, Alfieri, anche se poi le scenate materne che ricordava erano legate alla lettura clandestina di libri «proibiti» come Le relazioni pericolose. Possibile che già allora considerasse tutta la grande letteratura come un testo in sé teatrale.
Non ci si crederebbe, ma Luca Ronconi, a quell’età, era già orientato verso il teatro (a quattro anni aveva visto all’Argentina una commedia in genovese con Gilberto Govi, nella cui scena razzolava una gallina). L’eccitazione del teatro lo riempiva di orticaria, in casa con gli amici approntava piccoli spettacoli. A Dacia Maraini disse di non aver mai imparato niente a scuola: «Quello che mi interessava era il modo di parlare di ogni professore, i suoi tic, le sue manie. Mi divertivo a osservarli e non stavo mai attento a quel che dicevano». Arriva prestissimo anche la scoperta del cinema come «doppia realtà» (parole sue) e cresce la voglia di fuggire da casa, compresa dalla casa comperata dalla madre nel 1954 a Zagarolo, in campagna: lì il giovane Ronconi si avvicina alla natura, che rimarrà una costante della sua vita (gli amati gatti, gli amati cani, l’orto, le serre, le rose e gli ulivi).
Così ricordava i primi anni a Zagarolo: «Facevo molte collezioni di sassi, di piante, di erbe. Avevo un erbario molto ricco (...). Mi piacevano le classificazioni. Passavo ore in cantina ad allineare barattoli di acqua colorata, cinquecento colori diversi, tutti targhettati con nomi inventati da me». La casa di campagna sarà venduta nel ’72 per pagare i debiti dopo il fallimento di un’Orestea allestita con la Cooperativa Tuscolano. La racconterà come la favola più triste della sua vita.

Gli spiccioli avanzati da quella vendita serviranno al regista, più in là negli anni, per acquistare la villa coperta di edera nella campagna umbra, che sarà la sua dimora fino alla fine e nelle cui vicinanze nascerà il Centro Teatrale Santacristina, fondato con Roberta Carlotto, «uno spazio di libertà», con una scuola estiva per giovani attori, laboratorio tra analisi dei testi e apprendimento del metodo di lavoro sulla scena. Colpisce come la riservatezza fantasticante preservata e quasi cullata sin dall’infanzia abbia come rafforzato negli anni la sua generosità pedagogica, malgrado tutte le consapevoli asperità caratteriali, le impennate d’ira, il sarcasmo, anche quel suo snobismo capriccioso. Per non dire del sadismo nel costringere gli attori a recitare in condizioni penose (Branciaroli-Prometeo a Siracusa viene appeso a 15 metri di altezza, immobile su un seggiolino per due ore).
Il ragazzo intanto ha preso la maturità al Liceo Tasso di Roma e si è iscritto a Giurisprudenza per accontentare la madre, ma pianta tutto dopo due anni e nel 1951 fa l’esame di ammissione all’Accademia, lo supera e in poco tempo diventa da liceale timido un giovanotto «strafottente, sicuro di sé, un po’ maligno» (aggettivi suoi). L’esordio da attore è nel 1953 in Tre quarti di luna, diretto da Luigi Squarzina, che fino in vecchiaia considera uno dei suoi maestri. Nella costellazione variabile dei suoi maestri in Accademia Ronconi fa i nomi di Sergio Tofano per la recitazione, Orazio Costa per la regia, Alba Maria Setaccioli per la dizione, l’attrice Wanda Capodaglio «che sapeva tirarci fuori gli istinti», mentre confessa che la passione per il «grande spettacolo» gli è stata ispirata da Luchino Visconti. L’esordio dell’attore, con Squarzina, è un trionfo, nell’incredulità sua e degli amici. Sono gli anni della dolce vita, Ronconi è in continuo pellegrinaggio tra una compagnia e l’altra, ma recitare non gli piace. Nel 1963 pianta in asso Antonioni, che l’ha voluto con sé. Non impara nulla e lo spettacolo è una catastrofe. Dopo quell’ultima recitazione nasce il regista, nel nome di Goldoni, suo primo autore. Nuova catastrofe, questa volta condivisa con la compagnia messa su insieme agli amici Pani, Volonté, Gravina, Occhini. Da quel fallimento comincia la storia che conosciamo.