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 2025  febbraio 16 Domenica calendario

L’ossessione italiana verso (contro) le ripetizioni

«La questione se sia meglio variare o ripetere nella scrittura di un testo è un argomento che ha affascinato studiosi e scrittori per secoli. La ripetizione può avere un potente effetto retorico, rafforzando concetti chiave e creando un ritmo che può essere piacevole per il lettore. Tuttavia, la varietà introduce freschezza e mantiene alta l’attenzione, evitando la monotonia». Il chat-bot che si apre automaticamente non appena apro un nuovo documento nel mio computer, e prima ancora che io cominci a scrivere mi propone il suo aiuto, risponde così alla mia domanda se sia meglio variare o ripetere quando si scrive un testo. Per rispondere allo stesso quesito, un libro appena pubblicato dal Mulino e scritto dal linguista Massimo Palermo attraversa tutta la storia della nostra lingua: dalle novelle del Duecento fino ai testi prodotti da quelle che oggi chiamiamo IA: Intelligenze artificiali. Quel libro s’intitola Tanto per cambiare. La coazione a variare nella storia dell’italiano e in maniera analitica, documentata, argomentata dimostra che l’ossessione verso (contro) le ripetizioni portata avanti dalla nostra scuola risente di un generale sbilanciamento verso gli aspetti retorici più che pragmatici della lingua. Là dove pragmatici significa non solo pratici, ma legati a quel filone della linguistica – la pragmatica, appunto – che si occupa della lingua in azione e dunque dell’efficacia di alcune scelte dal punto di vista comunicativo. Nel modo in cui ancora s’insegna l’italiano a scuola, potremmo dire, val più la retorica che la pragmatica. Ma anche: val più la retorica che la grammatica. Se come grammatica intendiamo – in senso ampio – l’insieme di tutti quegli aspetti che consentono di esprimersi nel modo migliore in relazione al mezzo, alla situazione, all’argomento, alla persona o alle persone a cui ci rivolgiamo, all’effetto che vogliamo ottenere. La grammatica, insomma, come l’arte di dire le cose nel modo giusto al momento giusto (anche a costo di qualche ripetizione).

Deliberatamente, Palermo – pur prendendo in considerazione testi dei massimi nomi della nostra tradizione letteraria – non si sofferma tanto sugli usi stilistici della ripetizione quanto sugli usi discorsivi. Vale a dire quelli legati alla ripresa di un elemento all’interno di un testo: ripresa necessaria per la tenuta stessa del testo e del messaggio che veicola. «Le ripetizioni possono pertanto essere considerate strumenti» di ripresa «altamente trasparenti, che riducono al minimo lo sforzo richiesto al ricevente per la decodifica». Da questo punto di vista, repetita iuvant. Il che spiega come mai la ripetizione sia così frequente nei testi scientifici e tecnici, nelle voci di enciclopedia, nei libretti di istruzioni: tutte le volte che l’obiettivo sia la massima chiarezza e la minima ambiguità. Il motto variatio delectat, d’altronde, proviene in realtà da una deformazione del varietas maxime delectat («la varietà è estremamente piacevole») con cui nella Rhetorica ad Herennium si fa riferimento all’esigenza di variare il tono dell’esecuzione. In origine, quindi, «oggetto della variatio non sono tanto i singoli elementi linguistici ma la voce, le posture, le espressioni, i gesti». Nondimeno, «gli effetti più evidenti della coazione a variare si manifestano ancora oggi nella prassi scolastica», in cui «“la caccia alle ripetizioni” è una delle pratiche correttorie più intensamente messe in opera dai docenti». Senza tener conto di quelle che Palermo chiama le «ripetizioni “buone”, in cui la ripresa tal quale di una parola può servire, in particolare, nella scrittura espositiva e argomentativa, a evidenziare o a dettagliare il tema dominante» (un po’ come si è cercato di fare fin qui in quest’articolo).

Il fatto è che la «norma sommersa» – così la chiamava Luca Serianni – che implacabilmente continua ad agire nella nostra scuola è troppo spesso orientata ancora verso l’ideale del bello scrivere. Un criterio estetico che troppe volte prevale sull’intento pratico di insegnare a scrivere bene. Lo stesso criterio che innesca il riflesso condizionato dei calofemismi: «non facevo i compiti (svolgevo, eseguivo)», «lui è arrabbiato (in collera)», «passano (circolano) molte macchine», «non c’è molto rumore (non si odono rumori)». Sostituti lessicali in cui non agisce – come negli eufemismi (dal greco eu «bene») – l’esigenza di rendere accettabile una realtà sgradevole, bensì la convinzione che quei sinonimi servano a rendere il testo più bello (greco kalós).
E se invece pensassimo un po’ di più all’utile? A un modo per mettere i vari livelli della grammatica (morfologia, sintassi, lessico) organicamente al servizio di quello che oggi risulta più urgente per ragazzi e ragazze: cioè essere in grado prima di tutto di comprendere – e poi di produrre – adeguatamente un testo che vada oltre la frammentarietà a cui ci sta avvezzando la telematica? Di leggere oltre che guardare, di scrivere oltre che digitare. Un tempo si diceva che per imparare a scrivere bastasse leggere tanto. I rilevamenti Ocse e Invalsi degli ultimi anni ci dicono che oggi la cosa più urgente è proprio insegnare a leggere. Smontare testi per mostrare i meccanismi che li fanno funzionare e di lì ricavare le regole per poterne produrre di funzionanti. Le regole sono importanti, ci mancherebbe altro: ma alcune lo sono più di altre. Al netto delle regole di base, una formula potrebbe essere, ad esempio: più connettivi, meno complementi. Ovvero più attenzione al corretto uso delle parole che servono per connettere una parte del testo all’altra evidenziando determinati legami logici (tuttavia, perché, sebbene, pertanto) e meno a nomenclature elencatorie di tipo descrittivo (la differenza tra complemento di unione e di compagnia, ad esempio).

Il dibattito della linguistica sul rapporto tra insegnamento grammaticale e apprendimento delle competenze testuali è stato ravvivato nelle ultime settimane da alcuni interventi di Mirko Tavoni: un articolo in tre puntate nel sito della rivista «il Mulino» (La grammatica a scuola serve?), un altro nel sito dell’Accademia della Crusca (La competenza grammaticale è o non è importante per la comprensione dei testi? E quale competenza grammaticale?). Oltre che sul cosa, però, sarebbe forse il caso di riflettere anche sul come questo insegnamento avviene nelle scuole. Perché è lì – in classe, nel risvegliare un’attenzione oggi più che mai distratta da potenti mezzi di concorrenza sleale – che una modalità ripetitiva sicuramente non giova, mentre un po’ di variazione potrebbe dilettare.
La coazione, qualunque sia, rischia di produrre risultati coatti. Forse siamo noi insegnanti, allora, che dovremmo metterci in discussione e immaginare metodi nuovi per far fronte a un mondo nuovo. Miscère utile dulci. Puntando anche – magari – sul gioco, l’enigma, la sfida, nelle forme oggi più familiari a ragazzi e ragazze: test, challenge, contest. L’obiettivo? Ottenere ciò che nei social network si chiama engagement: il loro coinvolgimento. Quiz divertenti sul significato e l’origine delle parole, cruciverba grammaticali, gare a squadre sul vocabolario, prove d’invenzione di neologismi secondo determinate regole potrebbero essere solo alcuni dei modi per cercare di rendere la lingua italiana, il suo funzionamento, la sua storia qualcosa di meno noioso. Morfologia e lessico, etimi e sinonimi, registri linguistici e figure retoriche potrebbero diventare così materie sorprendentemente creative (se non proprio ricreative). E persino suscitare all’interno della classe – chissà, magari non è solo un sogno – un nuovo spirito di collaborazione. In fondo è ancora vero che, come scriveva Gianni Rodari nella sua Grammatica della fantasia, «nelle nostre scuole, generalmente parlando, si ride troppo poco. L’idea che l’educazione della mente debba essere una cosa tetra è tra le più difficili da combattere».