il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2025
Intervista a Paolo Genovese, regista
Il pericolo si nasconde dietro un fiore di zucca, fritto. “Occhio che schizza. Me so’ macchiata tutta”. Parole e musica di Emanuela Fanelli rivolte a Paolo Genovese. Lui è il regista di Follemente, lei una delle protagoniste. Insieme a Vittoria Puccini, altra rappresentante di un cast ricchissimo, sono a tavola, una pausa durante il tour promozionale della pellicola.
Paolo Genovese è uomo di macchina, di sostanza, di sogni da realizzare, di parole perfette per accarezzare, per fissare i sussurri della vita. “Fosse per me neanche apparirei. Non amo i riflettori, non mi piace l’attenzione. Mentre amo scrivere”.
Dalla sua penna sono nati alcuni dei migliori film degli ultimi anni, Perfetti sconosciuti in primis (“a volte mi domando se mi pesa essere riconosciuto soprattutto per quella pellicola. Poi mi rendo conto che sarebbe ingeneroso. Quindi va bene”); adesso torna con Follemente, una commedia attenta, ironica, riflessiva, divertente e con un cast fantastico.
Secondo Neri Parenti, quando c’è un cast così ricco ci deve essere sempre la vittima sacrificale in grado di creare gruppo.
(Ci pensa e chiede a Fanelli e Puccini: “È successo?...) Si sono presi così tanto per il culo, e in maniera trasversale, da diventare tutti vittime e carnefici; a volte il set è sembrato l’ora di ricreazione alle scuole medie quando ci si tirava il cancellino.
I più attivi?
Claudio Santamaria e Rocco Papaleo; Marco Giallini rispondeva, incassava.
Lei era il “maestro”?
Quando giro una commedia, il buonumore, il cazzeggio, lo ritrovo dentro la pellicola.
Sul set sbatte mai i pugni?
Difficile.
E quando è capitato...
No, è difficilissimo. A me i set armonici danno di più, gli attori regalano il meglio, mentre ci sono dei registi che preferiscono il contrasto, la tensione; (pausa) sbrocco con l’attore capriccioso.
Tipo?
In Immaturi – Il viaggio, all’alba, proprio quando stava per sorgere il sole, un attore iniziò con bizze assurde, con richieste specifiche di cibo e bevande. Capricci. E lì mi sono incazzato, perché saltavano i tempi e creava problemi agli altri; (pausa) ma davvero, è raro (resta zitto, poi a Puccini e Fanelli). Ho urlato? (loro stupite: “No!”).
Ha sempre cast molto ricchi.
In Follemente ho attori con i quali ho lavorato per la prima volta; quando li conosci molto bene, c’è il rischio di adagiarsi, di cadere nella confidenza, per questo tengo a cambiare. A volte mi sorprendo.
Tipo?
Ne Il primo giorno della mia vita ho lavorato con Toni Servillo.
Servillo intimorisce?
Prima di lavorare con un attore, tutti quanti hanno la loro opinione sull’attore stesso, magari con giudizi pessimi: “Non lo prendere, ti fa impazzire”. “Sei matto!”. Non ascolto nessuno: troppe volte il set ha svelato un’altra verità.
E Servillo?
È un attore meraviglioso (il “meraviglioso” lo scandisce: ogni sillaba è un crescendo), chiunque vorrebbe lavorare con uno come lui.
Cioè?
Un vero professionista, vuole capire tutto del progetto; la prima volta che l’ho incontrato si è presentato con un tomo altissimo, pensavo fosse la mia sceneggiatura, in realtà erano le sue note. Vivisezionata. Per sposare completamente il progetto deve approfondire, deve evadere ogni perché. Deve assorbire tutto, non solo il suo personaggio. È preparatissimo. Non sbaglia. Se gli chiedi di cambiare tono, in tensione, lo fa. È generoso con gli altri...
Cosa intende per “generoso”?
Giravamo a gennaio, un freddo clamoroso. Lo guardo e gli propongo di mettersi al riparo: “Quando non sei inquadrato le battute le do io, non ti preoccupare”. E lui: “No, grazie”.
Quando scrive una sceneggiatura ha sempre chiari tutti i perché?
Penso di sì. A volte il bravo attore ti pone dei dubbi, ti mostra sfumature alle quali non avevi pensato e sei costretto a riflettere più del previsto.
È geloso della sceneggiatura?
Tantissimo.
Sembrava il contrario.
Sulla sceneggiatura do il sangue, mi fermo solo quando sono certo di non poter dare di meglio; posso stare fermo anche un giorno su un aggettivo. Misuro parole, virgole, congiunzioni.
Cesellatore.
In Perfetti sconosciuti c’è una frase “saper disinnescare”. “Disinnescare” è rimasto impresso, utilizzato come meme.
Di quale attore si fida per le improvvisazioni?
Valerio Mastandrea. Lui tira fuori cose interessanti e qualche volta abbiamo litigato, anche pesantemente; o Claudio Santamaria: in Follemente è stato abbastanza vulcanico.
Edoardo Leo?
Magari gira la frase in un altro modo, prova un tempo diverso. E mi fido.
L’attore quanto cambia quando diventa regista.
In positivo, diventa più consapevole di quanto è complesso stare dietro la cinepresa.
Quanto è complesso?
È un ruolo solitario nel quale tutti ti chiedono qualcosa, qualunque cosa, e devi offrire una risposta, dare l’idea di avere il controllo. Quindi l’attore-regista è maggiormente rispettoso dei tempi, dei problemi, delle inquadrature. È conscio delle questioni legate ai raccordi.
Tradotto.
A volte si buttano le scene, magari scene belle, perché durante il montaggio ci si rende conto che l’attore una volta beve con la mano destra, poi nel ciak successivo con la sinistra; se fai il regista capisci quanto è importante, se sei solo attore no. L’attore è sempre sotto giudizio.
Da attore ho girato una scena in Call My Agent: lì ho capito il livello di ansia.
Agitato.
Ehhh, da quell’esperienza ho accentuato il mio affetto nei confronti degli attori.
È stata così dura?
Ho capito il problema della memoria, dei tempi, la quantità di consigli, di indicazioni ricevute. E nonostante tutto devi pure apparire naturale.
Quando ha visto la sua performance?
Mi sono giudicato un cane maledetto, con questo accento romano orrendo. Eppure dovevo semplicemente camminare, sedermi...
Quindi niente cammei.
Non mi piace apparire.
Quante telefonate riceve dagli attori per un ruolo?
(Cambia tono, lo abbassa) Tante. Tantissimi messaggi. E l’aspetto più difficile è mantenere intatti i rapporti di amicizia. Questa situazione la soffro.
Si barcamena.
Quando decido un cast cerco di mettere da parte i sentimenti.
Con alcuni attori è costretto a giustificarsi?
In vent’anni almeno due amici li ho persi per non averli chiamati in un film; poi nessuno ti viene a recriminare a brutto muso, ma lo capisci, si fredda il rapporto. Ma è umano.
Comporre il cast è uno dei momento più complicati?
Se sbagli attore sbagli il ruolo.
Quante volte le è capitato?
Non tante, mi reputo fortunato; (ci pensa) nel provino nessun attore dà il meglio e il regista deve proiettarsi.
L’attore non perfetto nel provino che poi è cambiato sul set.
Ricky Memphis: è timido, non ama stare sotto i riflettori, ed era imbarazzato, mentre nel film ha interpretato un personaggio meraviglioso.
Rispetto ai riflettori, lei...
Non provo alcun piacere nell’apparire; conta solo il film, conta solo come va, non io (nel frattempo Fanelli guarda Puccini e la responsabile stampa del film: “Posso andà a fa ’na pennichella?”. Traduzione di pennichella: riposino breve ma soddisfacente. Risposta dell’addetta stampa. “No”).
I suoi attori quante volte le hanno detto “sei bravo, simpatico ma della Lazio”?
(Ride) C’è rispetto; per me, Edoardo (Leo), Marco (Giallini) o Valerio (Mastandrea), il tifo è un argomento serio, raramente ci prendiamo in giro. Se ci facciamo le battute, finisce male.
Altro amico romanista: Giovanni Floris...
(Cambia lo sguardo) Amici da una vita: da ragazzi le nostre domeniche pomeriggio erano delle sedute casalinghe per vedere i Vacanze di Natale, Lo squalo, Indiana Jones.
Carlo Verdone ha parlato al Fatto di un certo snobismo nei suoi confronti da parte dei registi che non si occupano di commedia. L’ha mai sentito?
Non posso dirlo, sarei ingrato: con una commedia (Perfetti sconosciuti) ho vinto il David come miglior film. Però un po’ di snobismo c’è.
Perfetti sconosciuti le ha aperto le porte.
Sì, però sono arrivato lì dopo commedie apprezzate, come Immaturi e Tutta colpa di Freud.
Aggiungiamo Incantesimo napoletano: un gioiello.
Lo adoro, prodotto dal meraviglioso Amedeo Pagani: sono orfano di quella generazione di cinematografari.
Che accadeva?
Allora ero giovanissimo, vivevo da solo, e magari mi svegliava all’una di notte: “Vieni, ho un’idea perché non funziona una cosa”. È successo più volte. E allora ci chiudevamo nella sua casa piena di libri e fumo di sigarette e tutta la notte lavoravamo, magari con in mano un bicchiere di whisky.
Cinema nella sua essenza.
Come lo sognavo; il giorno dell’uscita del film su Roma c’era il diluvio, eppure mi passa a prendere: “Dove andiamo?”. “Aspetta”. Con la sua vecchia Saab abbiamo effettuato il giro dei cinema per verificare se le persone andavano a vederlo.
Era giovane ma non giovanissimo.
Primo film a 33 anni.
Bene arrivarci tardi?
Credo di sì. La mia era una famiglia normale, non poteva mantenermi, quindi dovevo lavorare, non dedicarmi al cinema.
Soluzione?
Ho studiato Economia e Commercio, quindi assistente universitario, volontariato, poi ho lavorato in azienda, in alcune società di revisione.
Giacca e cravatta.
Sempre.
A suo agio?
Poi ti adegui; (cambia tono) l’estate ho lavorato nei villaggi con uno sconosciuto Fiorello. Infine sono arrivato al cinema.
E...
Vivere tante vite diverse è stato estremamente utile perché quando scrivo attingo alle mie tante esperienze.
Com’era Fiorello?
Fenomenale. Finito lo spettacolo restava a dire stupidaggini con il pubblico, mettendo in mezzo tutti, ed erano meglio dello spettacolo stesso. Noi lì incantati; (torna a prima) oltre a tutte queste esperienze aggiungo la militanza politica.
Era un morettiano?
Assoluto. E da giovane sono stato molto di sinistra, ci ho creduto.
Se ascolta o vede qualcosa che richiama gli anni in cui ci credeva?
Ieri sera ho visto la Grande ambizione e quando ho sentito Eppure soffia di Bertoli mi sono venuti gli occhi lucidi; (abbassa la voce) la prima litigata violenta con i miei è avvenuta per la politica, anzi per una manifestazione.
Cosa è accaduto?
Anni 80, organizzano un sit-in sotto l’ambasciata del Cile. I miei: “Tu non ci vai”. “Ok, gioco a pallone”. Invece corro lì, ma ero tra i più piccoli e mi piazzano davanti allo striscione “Compagno Allende, il Cile non si arrende”. La sfiga è stata che mi riprende il Tg della Rai, i miei lo vedono e sono stati cavoli.
Rimorchiava con le manifestazioni?
Meno di tutti i miei compagni di scuola di destra: parlavamo tanto, di massimi sistemi, e pareva brutto interrompere quei flussi di coscienza e “andiamo a fare una passeggiata?”; loro erano più concreti.
Scene di sesso, poche.
Non le so girare, m’imbarazzo. E ho sempre paura che l’attrice non si senta a suo agio.
Quanti progetti ha nel cassetto?
Tantissimi, e mi angoscia una certezza: non li potrò realizzare tutti.
Le pesano i prossimi 60 anni?
Ci penso. E devo iniziare a selezionare le cose da fare.
Lei chi è?
Troppo difficile. Non so rispondere. Sicuramente una persona che ama raccontare storie.