il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2025
L’arte non ci parla più, occorre raccontarla
Secondo una leggenda, Michelangelo, guardando la sua statua di Mosè, avrebbe scagliato un martello contro l’opera gridando: “Perché non parli?”. Questo aneddoto esprime perfettamente il problema fondamentale del nostro patrimonio culturale: non ci parla. I suoi oggetti, i suoi luoghi, le sue opere d’arte sembrano testimoni silenziosi di qualcosa. Ma di che cosa?
Immaginiamo una situazione possibile di questi tempi: siamo davanti a un quadro che rappresenta una figura umana avvolta da una luce abbagliante che fluttua nell’aria ed è circondata da altre due persone, mentre altre a terra appaiono stupefatte. L’autore dell’opera è Raffaello. Non credo che qualcuno possa pensare a un extraterrestre che atterra, viste le fogge degli abiti e l’autore, e tuttavia quanti sono in grado di comprendere che si tratta della Trasfigurazione di Gesù e di descriverla nel suo significato? Il problema della decodifica dell’opera d’arte sta diventando un problema molto diffuso, e molto “laico” anche nel caso dell’opera di ispirazione biblica e religiosa. Lo hanno appena segnalato alcuni direttori dei grandi musei del mondo, in un incontro internazionale organizzato dal Dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione e dai Musei Vaticani nella cornice del Giubileo degli Artisti. Sostanzialmente si capisce che il vero problema non è il silenzio delle opere, ma la nostra incapacità di farle parlare, di raccontare la loro “storia” al pubblico contemporaneo.
Qual è il bandolo della matassa? La valorizzazione effettiva del patrimonio culturale attraverso il racconto. Non basta “preservare” le opere, insomma, ma occorre renderle vive e significative per chi le osserva. È lo storytelling la chiave per rendere il patrimonio culturale non solo “accessibile” – ed è già tanto, sì –, ma anche coinvolgente. Non si tratta tanto di inventare storie per libera ispirazione, ma soprattutto di riconoscerle all’interno degli oggetti e dei luoghi che desideriamo raccontare.
Prendo spunto da un recente intervento dello scrittore statunitense Colum Mccann sempre in Vaticano durante il Giubileo dei giornalisti. Ha detto che la distanza più breve tra persone – persino tra un amico e un nemico – è una storia. Non si misura in centimetri, dunque ma in storie. Sembra un aforisma, e forse lo è per la sua forza di pensiero, e trova una potente applicazione nel nostro rapporto con il patrimonio artistico. Le opere d’arte e i siti storici, infatti, possono sembrare distanti, immobili nel tempo, ma una storia ben raccontata accorcia questa distanza, avvicinando il pubblico al loro significato, alla loro “personalità”, se così possiamo dire. Il dialogo tra l’opera e il fruitore si arricchisce quando riusciamo a connettere il vissuto personale di chi osserva con una storia.
Lo storytelling culturale – questione da poco riproposta da un bel libro di Giovanni Carrada – richiede un equilibrio tra rigore scientifico e capacità narrativa. Il rigore non è fine a sé stesso, ma serve a far comprendere, nel woke imperante, che staccare le opere dal loro contesto finisce per erodere tradizioni fondamentali per le identità dei popoli, estrapolando gli oggetti artistici dal loro orizzonte ermeneutico originario. E serve anche per mettere in guardia dai limiti delle dinamiche di potere che influenzano la costruzione del sapere espositivo (e su questo Giovanni Pinna ha appena pubblicato Exhibit per Luiss University Press). I musei sono luoghi del potere, infatti. In bella mostra.
D’altra parte, la capacità narrativa richiede non solamente di raccontare il passato, ma di rispondere alle domande del nostro tempo e scoprire perché l’opera può essere rilevante per il nostro futuro. Questa, infatti, è la dinamica che ci muove: ricordiamo il passato sulla base di quel che desideriamo per il nostro avvenire.
Certo, viviamo un’epoca di rapidi cambiamenti: i mutamenti ci rapiscono (questo è il senso di “rapido”, del resto), afferrano la nostra attenzione e la nostra capacità di coinvolgimento. Alla connessione digitale sembra associarsi la disconnessione tra i giovani e la tradizione culturale. È necessario indagare la metamorfosi dell’immaginario e individuare le domande e gli stili delle nuove generazioni. È molto rilevante l’evoluzione continua dei linguaggi comunicativi. Le nuove tecnologie – spesso profondamente interattive e narrative – possono giocare un ruolo essenziale nella valorizzazione del patrimonio culturale. Per chi è cresciuto in un ambiente digitale la realtà aumentata, la realtà virtuale e le installazioni interattive possono trasformare l’esperienza museale e rendere il patrimonio più accessibile e coinvolgente. La fruizione artistica e culturale deve metterci “in gioco”, nel senso più letterale possibile.
Il vero problema oggi è l’estetica dell’i like, ovvero la partecipazione distratta, istantanea e indolore dell’occhiata al volo, dell’attraversamento leggero e volatile, del consumo rapido e compulsivo. È l’orizzonte di un’estetica da dove tutto è sovraesposto, remixato e fagocitato in una deriva da spot pubblicitario in cui il senso è già liquefatto. Dobbiamo però approfittare dell’estetica da video-clip continuo per superarla in modo che non si riduca a un’epifania fluorescente prima del prossimo scroll.
Le simulazioni interattive permettono al pubblico esperienze che vanno oltre la semplice osservazione. Anche grazie alla gamification, i visitatori possono essere incentivati a scoprire le opere attraverso percorsi narrativi. Ma perché non coinvolgere scrittori e attori capaci di raccontarci quel che vediamo? E poeti che dicano in versi persino l’indicibile dell’opera. Trasmettere il patrimonio non significa solamente esporre opere e oggetti, ma renderli parte di un dialogo attivo, partecipativo, emozionale, “spirituale”. Lo storytelling diventa quindi uno strumento essenziale per valorizzare il nostro patrimonio, garantendogli non solo conservazione, ma anche vita attraverso le storie pazzesche che può ancora raccontare. Come quella della Trasfigurazione di Gesù, ad esempio.