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 2025  febbraio 16 Domenica calendario

Fedez e Lauro, stelle millenial di Sanremo

Canzoni così così. Anche quelle belle, sono belle così così. Però abbiamo visto degli artisti che hanno fatto gli artisti, i musicisti e non gli influencer, gli idealisti e non gli ideologi, i filantropi e non i life coach, i cantautori e non gli autobiografi, i romantici e non i sentimentali. Cinque nomi su tutti: Fedez, Achille Lauro, Lucio Corsi, Willy Peyote, Joan Thiele. Che hanno in comune di essere ex giovani (anche se per questo Paese sono post adolescenti con tutta la vita davanti): sono millennial, la generazione che credevamo perduta, affogata nella lagna, sensibile all’autopromozione, vittimista, choosy.È difficile dire se sia merito dell’ambiente «disteso e rilassato» del Festival, come tutte le mattine in conferenza stampa ha detto il sindaco di Sanremo per elogiare Carlo Conti, ma di certo è merito della de-ideologizzazione del Paese, dei tre anni di guerra che abbiamo addosso, che ci hanno stremati come ci hanno stremati gli adulteri, i divorzi, la post verità, l’istruzione, la fatica, il dialogo.
Quelli che, poco prima del Festival, sono stati travolti dal gossip, e che era facile scommettere che l’Ariston lo avrebbero usato per smentire, vendicarsi, dire la loro, continuare la telenovela, hanno invece fatto una cosa che non siamo più abituati a vedere: hanno evitato tutto, hanno fatto quadrato intorno alle canzoni, si sono occupati di quelle e basta, le hanno portate fuori dal Festival, in una Sanremo immersiva che è odiosamente invasa da brand, sponsor, temporary store di centri estetici, cioccolaterie, paninerie, ma pure da spazi d’ascolto, festicciole romantiche, omaggi floreali che sono iniziative dei singoli cantanti, magari un po’ ruffiane, anzi molto ruffiane, ma belle, coinvolgenti, perché il Festival è anche degli italiani che vengono qui come pellegrini, e gli artisti è loro che abbracciano, è a loro che vogliono regalare un momento indimenticabile e non più solo un frettoloso selfie.
Sul lungomare, la fila di persone, soprattutto ragazze e ragazzi, che ieri aspettavano di entrare in un gazebo bianco, cubico, con sopra scritto «Battito», arrivava al chiosco di street food TonyEffe, popolato da qualche famigliola che stava lì a mangiare pinsa romana: erano tutti lì per godersi lo spazio di Fedez, una stanza dove si entra e si ascolta la sua canzone, ed è una scelta bellissima, è la rappresentazione della sua scelta, quella di cantare e basta, e alludere solo con la musica alla sua storia, ai pettegolezzi, alle odiose schifezze che ha fatto e subito.
La conclusione di Bella stronza, che non è stata riscritta in favore di politicamente corretto e woke culture come si vociferava, ma solo rinominata (da Conti, in conferenza stampa: «Bella carognetta... così non ripeto la parolaccia»), è la cosa più sorprendente che ha fatto, e anche la più femminista: «Ti ho dato tutte le ragioni per essere una bella stronza». È la chiusura perfetta e nobile di una vicenda che è stato lui stesso a montare, smontare, e decine di altre furbizie che sappiamo e che però non contano più, ma è soprattutto la chiusura perfetta di una storia d’amore (finto o no che sia stato, l’importante è che è finito): niente narcisismo dei lasciati, orribile sport di questi anni, e, al suo posto, una assunzione di responsabilità, che è un bellissimo modo di congedarsi da chi abbiamo amato, e ci ha fatto male, e a cui abbiamo fatto male.

Achille Lauro ha aiutato la sedazione del fabriziocoronismo: ai giornalisti che gli hanno chiesto cosa avesse da dire a Fedez, poiché secondo il re dei paparazzi Chiara Ferragni lo avrebbe tradito con lui, ha risposto molto candidamente «Spero che si ricentri». Per il resto, Lauro è salito sul palco vestito in modo impeccabile, sempre in linea con un personaggio che ha deciso di recitare e che funziona e che è una maschera vintage e galante, romantica, una maschera che usa per ricordarci che l’amore è bello anche se fa male, è bello quando fa male, che non si muore per amore perché si muore senza amore. E al suo festino, due notti fa, il giorno di San Valentino, in un minuscolo locale della vecchia Sanremo, ha cantato quasi solo canzoni d’amore disperato, accompagnato da una band improvvisata di suoi amici romani, dopo che aveva fatto distribuire, in sala stampa, rose rosse a tutti, ma soprattutto a tutte, con dentro un bigliettino che diceva: «Non c’è nulla di più incosciente che amare. Buon San Valentino, Bellezze». Che classe. Molto ruffiano, è vero, ma stiloso. Non lo avremmo immaginato mai un Lauro così, anche solo qualche anno fa, quando all’Ariston giocava a incarnare la fluidità, il regno queer, e invece adesso, certamente in linea con il nuovo Zeitgeist, che è un vecchio Zeitgeist, fa il Gastone innamorato, l’eterosessuale che si strugge per l’amore in sé.
Lucio Corsi ha fatto un capolavoro dopo l’altro ed ha conquistato tutti, ma tutti, senza fare nessuna delle cose che in questi anni sono sembrate essenziali per «arrivare al grande pubblico»: ostentare i fatti suoi, i dolori suoi, le debolezze sue, scegliere un personaggio efficace e costruirgli addosso una carriera, spiegarsi anziché esprimersi, mostrarsi in eternavisione sui social, campionare la musica. Da anni, e anche a Sanremo, Lucio Corsi ha fatto solo e soltanto il cantautore: ha fatto dischi sul vento, sulle creature della foresta, sul tempo. Ha dato un’importanza gigantesca alla costruzione di un’atmosfera e di un mondo magico, perché è questo il modo in cui gli artisti ci danno leggerezza: portandoci nell’altrove che inventano e creano (e non, come pensano Conti e la Rai di questo Festival, offrendo uno spettacolo disimpegnato, giullaresco, per farci smettere di pensare).
Soprattutto, da anni e anche a Sanremo, Lucio Corsi ha curato e difeso la raffinatezza e la poesia, e quando Carlo Conti, nella serata cover, s’è intromesso e ha interagito con Topo Gigio facendogli domande stupide, lui è apparso molto infastidito sul palco, s’è irrigidito, e dietro le quinte s’è pure arrabbiato: non s’interrompe un’emozione, neanche quando a emozionare è il pupazzo di un topolino. Lucio Corsi meritava il premio della critica e tutto il Festival, e gli italiani meritano un artista che, per dar loro il meglio, si mette di traverso al conduttore di Sanremo, che in questo Paese è il tenutario del quarto potere dello Stato.
Tutto questo speriamo sia di lezione a giornalisti, autori tv, amministratori, politici: agli italiani piacciono i pettegolezzi, certo, ma appena qualcuno propone loro qualcosa di più e di meglio, lo riconoscono immediatamente, e rispondono.