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 2025  febbraio 16 Domenica calendario

Adelphi spiega perché ripubblica Philip Roth

L’acquisizione di Philip Roth da parte di Adelphi risale a un anno fa. I Roth sono due e diversissimi tra loro: il primo, con cui per decenni Adelphi si è identificata, è Joseph, lo scrittore della finis Austriae, al quale ora si aggiunge il suo quasi omonimo americano, che il lettore italiano frequentava dal 1998 quando era vestito del bianco Einaudi. (Ci sarebbe un terzo Roth, Henry, che fu autore di almeno un capolavoro, Chiamalo sonno). La decisione di Roberto Colajanni, direttore editoriale e amministratore delegato della casa editrice fondata da Bazlen e cresciuta con Calasso, ha spiazzato molti. E ci si chiede se uno scrittore già arcinoto in Italia (anche nei Meridiani) possa trovare un pubblico nuovo. Ma gli argomenti di cui discutere con Colajanni sono diversi.
Colajanni, che cosa vi ha spinto verso Philip Roth? Il sacrificio economico corrisponde a un’idea nuova di proposta e di lettura?
«In realtà le confesso che non ci pensavamo per niente. Quando ce l’hanno offerto mi sembrava di aver capito male. Non è mai stato uno scrittore che sentivo vicino. Avevo letto negli anni del liceo le cose obbligatorie: Lamento di PortnoyLa macchia umanaPastorale americana. Lo consideravo più che altro un gran rompiscatole. Di genio, s’intende. Quello proprio non gli mancava. Ma pur sempre un rompiscatole. Quando sono arrivato in Adelphi, poi, anche volendo, non avrei avuto il modo di cambiare idea tanto facilmente. Si parlava solo del “vero” Roth, Joseph, cosa che certo non mi dispiaceva, perché lui sì, lo amavo. L’“altro” non si poteva nominare, forse perché in realtà così male non era. Abbiamo riletto tutto Roth, una trentina di libri, nel corso di tre settimane. È stato un enorme lavoro di squadra. Ci chiamavamo di notte, tramortiti, esaltati, innervositi, stupefatti. Per me è stato come conoscerlo per la prima volta».
Che cosa l’ha sorpresa rileggendolo?
«La sua verve, una verve che non ha rivali nella letteratura americana (e direi anglofona) del secondo Novecento. Può far ridere, anche fino alle lacrime, ma non è simpatico. È subdolo, ipocrita, una carogna allo stato puro. Piagnucola e azzanna. Quando lo leggi, è come se ti strisciasse dentro. Vai avanti per un po’, a tentoni, e senza accorgertene sei in trappola, come un topo. In un’ipotetica morfologia della letteratura, l’unica immagine che mi verrebbe di affibbiargli è quella del boa constrictor. C’è da domandarsi allora perché Philip Roth, a più di sessant’anni dall’uscita del suo primo libro, continua a stregarci».
Secondo lei perché?
«Per lui scrivere era uguale a vivere. Solo che vivere non basta mai. Non va mai bene. E allora scrivere diventa l’unica, paradossale forma di salvezza. Tutto questo si sente, ti attraversa quando lo leggi, e alla prova dei fatti, della pagina scritta, non puoi che arrenderti. Ecco perché oggi, quando si parla di autofiction (a cui appartiene ormai la quasi totalità della letteratura contemporanea) si avverte immediatamente la risatina sommessa e gracchiante di Roth. È come paragonare il registratore di uno smartphone all’apparecchio della Colonia penale di Kafka, che scrive la condanna incidendola direttamente sul corpo dell’imputato. Tutto in Roth è corpo, il suo corpo che parla e pronuncia la sua sentenza».
Dare nuova vita ad autori già pubblicati da altri è sempre stata una «strategia» di Calasso. Ma nel caso di Roth sembra più difficile, visto che non si tratta di un autore dimenticato, e neanche trascurato, come furono, in modo diverso, Kundera e Simenon.
«Non la chiamerei una strategia, sarebbe squallido. Anche se in effetti c’è chi ne ha fatto un mestiere. L’editoria somiglia sempre di più a uno sport violento, senza regole o esclusioni di colpi. Non c’è più una reale corrispondenza tra che cosa si pubblica e chi lo pubblica. L’obliterazione totale dei profili editoriali che paventava Calasso, con rarissime eccezioni, si sta compiendo. Nella storia di Adelphi invece quei “passaggi” (intesi come mutamenti di stato), a posteriori si sono rivelati parte del suo patrimonio genetico. Mi rendo conto che possa suonare paradossale, ma è così. Visto da un occhio malevolo, il catalogo Adelphi è composto in buona parte di autori precedentemente pubblicati “da altri”. Oggi però molti di questi autori vengono identificati con l’essenza stessa dello stile di Adelphi».
Come è potuto accadere?
«È il vero mistero dell’editoria, che altrimenti si ridurrebbe alla ricerca spasmodica di “autori nuovi”, ovviamente vitali, ma che poi spesso così nuovi non sono. Le faccio un esempio di cui si parla di rado. Sciascia. Quando avvenne il passaggio ad Adelphi, nel 1986, a tre anni dalla sua morte, Sciascia era un autore già celeberrimo in tutto il mondo. Era stato pubblicato, molto bene, da Einaudi, poi da Bompiani e da Sellerio, e non era esattamente quello che all’epoca si sarebbe definito un “autore Adelphi”. Eppure oggi lo Sciascia adelphiano sembra quasi un altro scrittore».
In che senso?
«La sua opera si è legata chimicamente a quella di molti autori del catalogo, che lui venerava, alle sue passioni di lettore: Simenon (soprattutto Maigret), Savinio, Borges, Dürrenmatt (che però arrivò dopo), ma anche scrittori meno noti e apparentemente distanti da lui come Lernet-Holenia. Oggi, grazie a quella congiunzione astrale, le edizioni adelphiane di Sciascia hanno raggiunto quasi tre milioni e mezzo di copie. Lo stesso discorso si potrebbe fare per Carrère, che è un altro esempio di perfetta simbiosi tra scrittore/lettore ed editore, e anche per Carlo Rovelli».
Accadrà lo stesso anche per Philip Roth?
«La speranza è quella. Le garanzie: nessuna. Ma forse è un buon momento per tentare. Roth è già finito (più volte) all’inferno ed è già stato (altrettante volte) santificato, per motivi che oggi appaiono piuttosto futili. Una volta spazzata via la sua leggenda di grande provocatore politicamente scorretto o eroe libertino depravato, ci si può finalmente dedicare solo a quello che ha scritto. Un’opera di una vastità e di una varietà stupefacenti, che dubito molti lettori italiani possano dire di conoscere davvero. Perché per capirlo bisogna leggerlo tutto. Come in un cubo di Rubik, bisogna completare ognuna delle sue facce, e Roth ne ha molte. Per non parlare della sua preveggenza. Leggere oggi alcuni capitoli di Complotto contro l’America fa venire i brividi per la precisione con cui ha vaticinato quello che stiamo vivendo. Lo stesso vale per La macchia umana. Sarà un lavoro lento, da costruire nel corso degli anni, e ha a che fare con la forma dei libri, con le nuove traduzioni, le copertine, la sequenza con cui si decide di ripresentarlo. Una delle sfide più affascinanti di questo mestiere».
Se Sciascia è entrato in una costellazione con Simenon, Savinio, Dürrenmatt, quali autori adelphiani accosterebbe a Roth?
«Senz’altro Kundera, che era un suo grande amico e a cui ha dedicato uno dei suoi libri più belli e meno letti: Lo scrittore fantasma. Kundera viene anche evocato – con nome e cognome – alla fine della Macchia umana. Non è questione di affinità stilistica (non potrebbero essere più diversi), piuttosto di una profonda complicità, che si nota subito leggendo la memorabile intervista di Roth a Kundera. Poi Kafka (onnipresente), Isaac Singer, Faulkner, Céline (che lui chiamava “il mio Proust”), Colette, fino a Mordecai Richler: fra i due c’era un misterioso rapporto di amore-odio. Si narra di un loro duello a cena, una sera a Londra, su chi fosse capace di dire più sconcezze in pubblico. Finì in parità. Qualcuno ha insinuato che Terry McIver, l’acerrimo nemico di Barney Panofsky (protagonista della Versione di Barney), sia una maschera di Roth. Verosimilmente una balla. Poco importa, fra il Portnoy di Roth e il Barney di Richler c’è un gioco continuo di rifrazioni. E soprattutto restano i due libri più divertenti degli ultimi cinquant’anni. Sfido a trovarne un terzo che regga il confronto».
Le nuove traduzioni come potranno contribuire a dare una nuova immagine di Roth? Quali saranno i primi titoli?
«Come sempre le traduzioni per noi sono il primo mattone del nuovo edificio, l’elemento che lo distingue, e una delle condizioni che ci siamo posti prima di acquisire l’autore. Abbiamo deciso di ritradurre Roth per intero, con la sola eccezione di alcune traduzioni di Vincenzo Mantovani e Norman Gobetti. I primi libri di Roth, che usciranno a partire da quest’anno, saranno tradotti da Matteo Codignola e Silvia Pareschi. I titoli non ve li dico, ma li scoprirete presto. È un’impresa dannatamente difficile, perché con Roth non si tratta soltanto di tradurre egregiamente, ma di gareggiare con il suo estro comico, infantile, erotico e tormentato. Inoltre, con una commistione di timbri, tempi, che variano di continuo, letteralmente esplosiva».
Una gran fortuna avere in catalogo diversi titoli della Nobel coreana Han Kang.
«Una gran fortuna, ma direi anche una certa bravura a credere in questa autrice quando nessuno sapeva chi fosse. Non si parlava allora di “Korean-Wave” o di “K-Pop”, e Parasite e Squid Game non facevano parte dei nostri intrattenimenti serali. Credo che Han Kang sia una delle poche voci originali del nostro tempo. È una scrittrice che divide, può risultare cruda, disturbante. I suoi libri ruotano sempre intorno a un punto cieco, una perdita. Perdita dell’appetito, di una persona, della parola, del desiderio, della memoria (intesa come passato di un popolo, quello coreano). Ma non sono quei vuoti ad attrarci. È la sostanza della sua prosa, che ha qualcosa di alieno (nel doppio significato di estraneo e non identificabile)».
Cosa intende dire?
«È come un campo magnetico, non so spiegarlo. Ma posso raccontarle quello che mi è accaduto poco tempo fa, quando mi trovavo a Stoccolma, insieme agli altri editori di Han Kang, per assistere al suo discorso di accettazione del Nobel. Il pubblico, circa duecento persone, raccolto intorno alla sua figura, teneva in mano una copia del discorso, in traduzione inglese e svedese, mentre i pochi coreani presenti ascoltavano. E qui è successo qualcosa di singolare. Dopo aver seguito all’inizio la traduzione, mi sono accorto che stavo guardando Han Kang. La sua voce si diffondeva nella sala in piccole onde sonore, a una frequenza talmente bassa da risultare quasi inudibile. Dopo un po’, guardandomi intorno, mi sono reso conto che anche molti altri avevano smesso di leggere, e ascoltavano, profondamente assorti, l’idioma sconosciuto. La scena è andata avanti per circa venti minuti. Qualcuno ha provato a liberarsi dall’incantesimo, cercando di ritrovare nei fogli il filo del discorso, ma ormai era troppo tardi. Poi è scrosciato l’applauso. All’uscita, nessuno dei presenti, almeno di quelli che ho potuto interrogare, aveva una vaga idea di cosa avesse detto Han Kang. Eppure sembravano scossi, come se una qualche area del loro cervello avesse assorbito le sue parole».
L’entrata di Feltrinelli e l’opzione di Mondadori sul 10 per cento di Adelphi (esercitabile nel ’27) quali difficoltà creano in prospettiva? Con che spirito si dirige una casa editrice stando «schiacciati» tra due giganti non proprio affini alla tradizione Adelphi eppure pronti a contendersela?
«È una situazione abbastanza eccentrica, almeno vista da fuori, ma le posso assicurare che non ci sentiamo affatto “schiacciati”. L’unica constatazione che si può fare è che tutti ci vogliono, e non è mai qualcosa di cui dispiacersi, direi. Noi continuiamo a occuparci della cosa che ci interessa di più, cioè i nostri libri, come è sempre accaduto in passato, anche in situazioni più complesse e finanziariamente assai meno brillanti».
Allude alla convivenza con la Rizzoli?
«Sì, non va dimenticato che, prima di ricomprare le quote nel 2015, Calasso ha convissuto per più di vent’anni con Rcs (dal 2004 in poi in maggioranza, con il 58 per cento), senza interferenze. La forza, la singolarità di Adelphi si misura sui libri che pubblica, e sull’indipendenza da ogni altra realtà editoriale, nel bene o nel male. Ma anche sulla fedeltà e la qualità dei suoi idiosincratici lettori. E questo, chi conosce e vive l’editoria ogni giorno, sa benissimo cosa vuol dire e quanto è facile perderlo».
Volevo domandarle qualcosa sui nuovi autori, quelli su cui puntate nei prossimi anni, ma temo che il nostro tempo, soprattutto lo spazio, sia finito.
«Sono molti, ma ci vorrebbe un’altra intervista. C’è sempre tempo per i nuovi autori, basta che siano nuovi. To be continued».