Corriere della Sera, 15 febbraio 2025
Il figlio di Pio La Torre racconta la storia del padre
Per raggiungere l’appartamento di Franco La Torre si salgono rampe di scale tra odori di spezie. Il multiculturalismo del rione Esquilino, edificato soprattutto su certi soffritti ostinati, ti viene incontro con pungente benevolenza. La casa sembra correre in maniera ancillare attorno a una graziosa terrazza, arredata con cura. Non manca il conforto della letteratura (piccole, maneggevoli librerie sono disseminate in giro per l’appartamento) tantomeno quello della musica, rappresentato da una robusta collezione di cd fra cui spiccano i Beatles. Qui, tra le cose di una vita tranquilla, si compie, forse, il volere di nonna Angelina. «Vi meritate una vita migliore diceva questa tenace contadina di Altarello di Baida. Ecco, mio padre, Pio La Torre, ha raccolto il suo appello». Parliamo del sindacalista e dirigente comunista ucciso il 30 aprile del 1982 a Palermo da una mafia apparentemente incurante degli effetti collaterali. Uno dei quali fu, appunto, la approvazione post mortem della cosiddetta legge La Torre/Rognoni che, da allora, ha consentito alla magistratura italiana di aggredire i patrimoni della criminalità organizzata. Legge-testamento del dirigente del Pci.
Dov’era, lei, la mattina dell’agguato?«Nella sede della radio del Pci di cui mi occupavo. Avevamo un telefono che riceveva solo dall’esterno e veniva lasciato sempre libero. Ricordo che squillò e andai a rispondere: sentii una voce dall’altra parte che diceva: “Hai sentito che hanno sparato a La Torre?”. Walter Veltroni, seduto sul divano, capì. Dopodiché ricordo che andai a casa. Del seguito ho poca memoria...». La Torre muore a 54 anni assieme a Rosario Di Salvo, suo autista e amico. Partendo dalla fine si apprezza forse meglio il peso di questo omicidio irrisolto, alla maniera di altri misteri d’Italia. L’ultima battaglia del dirigente comunista fu per la pace, contro l’installazione della base missilistica a Comiso che gli americani volevano puntata contro l’Urss. La politica atlantica era, all’epoca, tanto muscolare quanto impositiva.
Il partito lo seguiva?«Non interamente. In parte, diciamo».
Ne discutevate in casa?«Mio padre parlava dei problemi una volta che si erano risolti. A quel punto era disposto a scherzarci su. Ricordo l’ultimo pranzo».
Lei viveva a Roma dove aveva studiato Lettere con indirizzo storico, quando riuscivate a vedervi?«Mangiavamo assieme il martedì, il mercoledì o il giovedì quando veniva a Roma per seguire i lavori parlamentari, gli parlavo di me ma in generale chiacchieravamo dell’universo mondo. Gli riferii la conversazione avuta con un giornalista di Repubblica che lo definiva “un sovietico”. Dico questo per far capire che anche a sinistra non era facile far capire certe battaglie».
Comiso. Era un filo scoperto negli equilibri internazionali?«Alcuni pensano di sì e io fra quelli. Nel 1981 mio padre aveva presentato un’interpellanza parlamentare domandando perché mai si fossero tenute esercitazioni militari contro attacchi chimici e nucleari. Rimarcava che avevano partecipato civili...»
Pio La Torre andava mobilitando il mondo pacifista attorno alla base missilistica ma il partito non era tutto pacifista, in più c’erano alleanze di cui tenere conto...«Esattamente. Lui chiedeva una cosa in particolare: non installare missili durante le trattative fra Est e Ovest in corso. Attorno a questo obiettivo andava mobilitando socialisti, cattolici come il cardinale Pappalardo (Salvatore Pappalardo, allora vescovo di Palermo e autore della famosa omelia recitata in occasione dei funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ndr)».
Suo padre era sorvegliato?«Sì. Come lui molti altri. Credo che tutti i dirigenti comunisti dell’epoca lo mettessero in conto. Il “monitoraggio” cessò pochi giorni prima del suo assassinio»
Ma in famiglia avvertivate la paura?«Non se ne parlava. Mio padre aveva, però, una pistola. E come lui il suo autista Rosario».
In famiglia com’era?«Studiava e studiava».
Perché è stato ucciso?«A un cronista che lo chiedeva Dalla Chiesa volle rispondere così: “Per tutta una vita”. Credo avesse ragione. Non lo fermavi. Aveva grande capacità di mobilitazione».
La stessa che lo portò a organizzare le occupazioni contadine alla fine della guerra...«Da giovane dirigente sindacale organizzava le manifestazioni dei contadini. Lo arrestarono. Fece 17 mesi di carcere all’Ucciardone».
Si sentiva anche lui un contadino, uno di loro?«Lui era uno di loro. Da bambino nonna Angelina volle farlo studiare. Però ogni mattina, prima di andare a scuola, doveva occuparsi del vitello che rappresentava il capitale di famiglia, pulire la stalla, nutrirlo...»
Un po’ prima dell’arresto si era sposato con Giuseppina Zacco.«Lei era figlia di un barone comunista, un medico eccentrico. Si conobbero nella federazione del Pci. Lui le diede un libro di Lenin sulla condizione femminile, dicendole: “Poi ne parliamo”. Si sposarono. Mio fratello Filippo nacque durante il carcere».
Siamo a Palermo negli anni Cinquanta. La mafia cos’era per Pio La Torre?«Erano i tempi del “sacco”, Vito Ciancimino era assessore ai lavori pubblici, le licenze si moltiplicavano d’incanto. La mafia per mio padre non era solo coppola e lupara. Erano le sue ricadute. Erano le complicità politico istituzionali. Era, in sostanza, una questione di democrazia. La mafia, con la sua arcaica concezione del potere, era limite allo sviluppo del Paese».
Un problema italiano?«Sì, esatto».
Pio La Torre muore nel 1982. La targa che lo ricorda alla Camera dei deputati è solo del 2007...«Gianfranco Fini ci convocò per scoprirla».
Veniamo alle inchieste. Giovanni Falcone considerava l’omicidio di suo padre un caso politico. Vi incontraste?«Falcone parlava con mia madre, parlamentare dell’assemblea regionale. E lei aveva grande fiducia in questo magistrato determinato e trasparente».
Inchieste e processi hanno indicato in Totò Riina e Bernardo Provenzano quali mandanti dell’omicidio La Torre...«È così».Eppure prima di morire Falcone chiese di approfondire il ruolo giocato dalla struttura parallela di Gladio, l’organizzazione neofascista, nella vicenda. Il suo omicidio era già stato collegato a quello del fratello del presidente della Repubblica, Piersanti Mattarella e del segretario provinciale della Dc dell’epoca, Michele Reina. Il docufilm «Magma», oggi, torna a metterli in relazione...«Il procuratore capo dell’epoca (Pietro Giammanco, deceduto nel 2018, ndr) gli disse che non era il caso. Fummo delusi ma eravamo consapevoli delle difficoltà. Non ci siamo mai rassegnati né abbiamo mai pensato che se lo fosse andato a cercare. Siamo stati vicini, credo, alla verità».Quando?«Quando il procuratore Rocco Chinnici telefonò a casa nostra un giorno. Rispose mia madre. Le disse: “Signora siamo arrivati a un punto di svolta”. La invitò ad informare Irma Chiazzese, la vedova di Mattarella. Poi riagganciò. A luglio 1983 morì (una carica di esplosivo piazzata sulla sua auto, ndr)».