Avvenire, 14 febbraio 2025
Visita dell’ambasciatore israeliano in Vaticano
Un gigantesco manifesto avvolge la facciata della palazzina che fra le vie residenziali di Roma accoglie l’ambasciata d’Israele presso la Santa Sede. Mostra i volti degli ostaggi catturati da Hamas il 7 ottobre 2023 e ne invoca il rilascio. «Abbiamo molto apprezzato gli appelli del Papa per la liberazione dei nostri prigionieri. Le sue parole di alto profilo morale hanno una rilevanza mondiale e testimoniano il suo impegno personale. Altrettanto importanti sono le sue condanne dell’antisemitismo. Sia il Pontefice sia la Chiesa cattolica hanno un ruolo e una responsabilità importanti in questo ambito».Yaron Sideman è il nuovo rappresentante diplomatico di Israele in Vaticano. Arrivato nella Capitale in estate, ha presentato le sue lettere credenziali nelle mani del Papa a settembre. È stato il primo incontro con Francesco. L’altro è avvenuto a novembre quando ha accompagnato in udienza una delegazione israeliana di ex ostaggi e di famiglie che hanno parenti ancora tenuti prigionieri da Hamas. «Uno dei tre appuntamenti che il Papa ha avuto con le famiglie degli ostaggi. Si tratta di gesti che hanno un’eco universale e sono di per sé un messaggio. Più che parlare, il Papa ha ascoltato storie strazianti come quella di un padre che ha avuto la sua famiglia massacrata e lo ha scoperto solo dopo il rilascio. Poi abbiamo pregato insieme per la liberazione di tutti. Ad oggi sono 76 gli ostaggi ancora a Gaza».
Laureato in scienze politiche, psicologia e filosofia, Sideman ha prestato servizio in precedenza negli Stati Uniti. Seppur da pochi mesi in Italia, non ha mancato di obiettare con forza alle parole del Papa sulla possibilità di un genocidio palestinese a Gaza, come aveva fatto anche il suo predecessore. «Dobbiamo essere onesti – spiega ad Avvenire –: il dialogo ebraico-cattolico ha avuto una battuta d’arresto dopo il 7 ottobre e ha sofferto. Quando era più che mai necessario, si è congelato. Ecco perché dobbiamo imparare dal passato e far sì che riprenda in maniera positiva». È la missione che come ambasciatore si è dato: riportare le relazioni con la Santa Sede su un piano di cooperazione produttiva che le guerre in Medio Oriente hanno sfilacciato. «Credo fermamente nel dialogo che va favorito nel contesto giusto e nelle corrette modalità. Se ciò accadrà, sarà davvero utile per tutti». C’è una premessa che, però, il diplomatico ritiene fondamentale. «È artificiale separare completamente il dialogo con il popolo ebraico da quello con Israele, lo Stato ebraico. Infatti, da un lato, la metà del popolo ebraico vive oggi in Israele. E, dall’altro, l’identità ebraica contempla come cruciale l’affiliazione alla terra e allo Stato di Israele».
Nel 2025 ricorrono i sessant’anni della Dichiarazione conciliare Nostra aetate che ha “aperto” la Chiesa alle altre fedi, a cominciare dall’ebraismo. Si può ripartire da qui?
«È un anniversario che va celebrato solennemente perché è un investimento sul dialogo fra le fedi che è via di pace. Nostra aetate rappresenta una svolta storica che ha cambiato la prospettiva nei confronti degli ebrei: dal sospetto, che non di rado ha tracimato in odio, si è passati al rispetto e alla riconciliazione. La valuto una pietra miliare che ha dato frutti ad ampio raggio: sottolineo solo la questione dell’antisemitismo. E ha contribuito all’instaurazione delle relazioni tra Israele e Santa Sede».
Nei mesi di guerra non sono mancate le tensioni, nonostante nel 2024 sia stato celebrato il trentennale delle relazioni diplomatiche fra Israele e Santa Sede.
«Oggi abbiamo un’opportunità unica: quella appunto di rinnovare il dialogo. Anzi, aggiungerei che va ampliato sia nei contenuti sia nella partecipazione. È soprattutto nei momenti complessi che il dialogo fra le fedi acquista maggiore importanza e può aiutare a indicare la rotta per giungere a soluzioni che permettano di costruire un futuro dal volto nuovo».
Come rilanciare le relazioni?
«Israele è leader mondiale in molti settori, alcuni dei quali sostenuti dal Papa e dalla Chiesa. Cito il cambiamento climatico o l’approvvigionamento idrico. Se uniamo l’esperienza e le competenze di Israele con il messaggio universale della Chiesa, potremmo fare insieme del bene alla famiglia umana. Del resto questa collaborazione tra Stato di Israele e Chiesa cattolica è già in essere a livello locale. Ricordo il progetto realizzato dalla nostra ambasciata in Myanmar assieme alla nunziatura per rifornire di acqua un villaggio con la tecnologia israeliana».
Si possono criticare le decisioni del governo Netanyahu senza essere accusati di essere contro il popolo ebraico o contro l’esistenza dello Stato d’Israele?
«Israele è un Paese democratico con una società plurale. Ed è una democrazia forte. Uno dei cardini della democrazia è la libertà di espressione. Quindi, certo che si può criticare questa o quella scelta politica. La diversità di opinioni è più che legittima. Ciò che non possiamo accettare è che l’unica democrazia del Medio Oriente sia messa sullo stesso piano delle peggiori teocrazie nel mondo o di Paesi che rinnegano i diritti umani. Questa non è critica, ma pregiudizio verso lo Stato ebraico di cui così si mette a rischio il suo diritto a esistere».
Dopo l’attacco del 7 ottobre, il Papa ha ricordato che «è il diritto di coloro che sono attaccati difendersi». Ma durante il conflitto ha deplorato l’uccisione di migliaia di palestinesi.
«Anche noi soffriamo per le vittime innocenti delle guerre. Ogni vittima innocente di guerra è una tragedia, sia che si tratti di israeliani sia che si tratti di palestinesi. La domanda è: chi è responsabile per tutto ciò? Nel caso di questi mesi, dico che è Hamas. Il nostro Paese non ha iniziato la guerra. Ma è stato attaccato da un’entità genocida e jihadista che è determinata a distruggere lo Stato ebraico e che si è infiltrata nella popolazione di Gaza allo scopo di far uccidere i civili stessi. Israele si è difesa contro coloro che cercano di eliminare il nostro Stato e il popolo ebraico stesso».
Pensa che le tregue con Hamas e il Libano reggeranno?
«Molto dipende dall’altra parte, se rispetterà quanto pattuito. Ma gli accordi terranno se Hamas ed Hezbollah non saranno più in grado di essere una minaccia per Israele. Per quanto riguarda Gaza, occorre che siano rilasciati tutti gli ostaggi e che Hamas non resti come entità militare e civile nella Striscia. Per il Libano, è necessario che Hezbollah non abbia armi, o qualsiasi altro tipo di presenza, nella zona-cuscinetto da cui colpisce Israele. Sono ancora 130mila gli israeliani che non possono rientrare nelle loro case a ridosso del confine con il Libano. Israele vuole la pace anche per la gente di Gaza perché, una volta liberata da Hamas, sarà in grado di investire risorse nell’istruzione o nella medicina e non nei tunnel del terrore. E immagina un futuro per il Libano che non sia ostaggio di Hezbollah».
Due popoli, due Stati, chiede anche la Santa Sede. Sarà mai possibile?
«Israele ha scritto la pace, ad esempio, con l’Egitto, la Giordania, gli Emirati. Ciò dimostra il nostro desiderio di pace e la volontà di scendere a compromessi per raggiungerla. Ma non possiamo consentire che sia compromessa la nostra sicurezza. È prematuro dire quale formula sarà possibile con il popolo palestinese. Tuttavia c’è bisogno di rimuovere gli ostacoli che la impediscono, come Hamas ed Hezbollah che destabilizzano l’intero Medio Oriente attraverso l’Iran».
Lei arriva dagli Usa. Quali i rapporti fra Israele e Trump?
«Le relazioni con gli Stati Uniti si fondano su valori e interessi condivisi. Pertanto sono forti e stabili sia sotto un’amministrazione democratica, sia sotto una repubblicana».
Fratelli tutti, ripete il Papa. Anche ebrei, cristiani e musulmani in Medio Oriente?
«In Israele c’è già la coesistenza tra ebrei, musulmani e cristiani. Ma devono essere affrontati ed eliminati tutti quegli elementi che non vogliono tale convivenza o che, come Hamas, sono ispirati da una visione di dominio sugli altri».
Il Papa si batte contro l’antisemitismo e ripete: mai dimenticare gli orrori del passato come la Shoah.
«Dopo il 7 ottobre gli atti di antisemitismo sono aumentati del 400% nel mondo. Una cifra allarmante. Talvolta, usando Israele come scusa, si alimenta un odio senza filtri verso il popolo ebraico. Si tratta di una malattia sociale che minaccia valori comuni a tutta l’umanità, come il rispetto e la tolleranza».
I cristiani sono elemento di dialogo in Medio Oriente?
«In Israele la minoranza cristiana sta crescendo. Il dialogo fra le religioni segna la nostra società. Abbiamo un territorio piccolo e non possiamo che convivere assieme. La comunità cristiana è un elemento chiave nel mosaico israeliano. È completamente integrata ed è centrale nell’economia, nella politica, nel versante culturale».
Lei chiede ai pellegrini di tornare in Israele in occasione dell’Anno Santo.
«Certamente. Vorrei ribadire e diffondere l’appello del cardinale Pizzaballa e di padre Faltas. La Terra Santa è sicura. E la comunità cristiana deve sentirsi a casa nei luoghi che considera più sacri per la sua fede. I pellegrini sono sempre benvenuti, tanto più durante il Giubileo»