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 2025  febbraio 14 Venerdì calendario

Tacconi, il declino di un campione

TORINO – Dalla porta della Juve alle porte della metropoli, è un attimo. Ti distrai e la vita ti fa gol, come quella volta Maradona su punizione nel diluvio. Capitan Fracassa lo ha un po’ fracassato il destino: okay, Stefano Tacconi ci avrà messo del suo, ma di sicuro non è stato fortunato. Questi campioni sempre nel vortice, sempre al centro dell’universo, poi di colpo si spalanca la periferia. Dalla Nazionale, che è la casa di tutti, fino alle case popolari.Il personaggio è complesso, contraddittorio. Portiere istintivo e giocondo, lo definiva Vladimiro Caminiti, grande giornalista troppo presto dimenticato. Quand’era una gloria ad Avellino, il guascone Tacconi si accompagnava con due tizi da film di Tarantino, sempre in moto, imbozzolati in pelle nera, conosciuti come “i giganti di Acerra”: diciamo che non fecero una bellissima fine. Ma il calciatore è da sempre calamita e calamità, attira il meglio e il peggio e può essere preso nel mezzo, anche per ingenua generosità: così è Stefano.Il portiere matto e sublime. Nell’estate 1983 infilò i guanti di Zoff, insomma il mondo sulle spalle di Atlante, ma non vacillò: due scudetti e tutte le Coppe europee con la Juve, unico gardien de but ad esserci riuscito nella storia del calcio. Così così in azzurro, dov’era chiuso dal rivale Zenga che pure s’impaperò a Italia ’90: con Fracassa in porta e non solo Schillaci davanti, chissà.«Senza di me, il museo della Juventus non lo avrebbero neanche aperto». «Li ho fatti ricchi con le multe». «Una volta dissi che mi mancava Zoff allenatore, l’avvocato Agnelli mi rispose: “Non sa quanto manca a noi come portiere”».Chiusa la porta si è aperto il vuoto. A tanti atleti succede, ma a qualcuno di più. Al tempo di Stefano, icampioni non compravano aeroplani ma erano comunque molto ricchi: e allora, com’è possibile dover chiedere un alloggio all’Aler, edilizia popolare? Al netto della terribile malattia di tre anni fa, l’aneurisma che ha portato Tacconi quasi all’altro mondo («Quando mi sono risvegliato dal coma e ho visto mia moglie Laura, ho pensato: è morta pure lei»), e dal quale è risalito in qualche modo («La forza me l’ha data Padre Pio»), il tracollo ha spiegazioni più banali. Investimenti sbagliati, una linea di moda finanziata senza dirloalla moglie (e con successiva lettera di scuse su un settimanale rosa), un’azienda vinicola, una pizzeria a Budapest, un’enoteca ad Agropoli, un processo per fallimento a Teramo di una società di servizi di cui Tacconi era socio amministratore (condanna in primo grado, assoluzione in appello), un imbianchino che gli fa causa per lavori mai saldati, un’agenzia di autonoleggio che lo cita per non avere pagato il dovuto e neppure le multe prese nel frattempo, un paio di tentate avventure politiche con la destra, non andate a segno. Uscite spericolate oppure a vuoto, palloni perduti male, infortuni. E sempre pioggia come nel giorno di Maradona, allora però solo sul campo, dopo invece è stato un diluvio nell’anima.Quanto dolore. L’ictus, il coma, il lungo ricovero ad Alessandria, le terapie milanesi al “Don Gnocchi”, la degenza a San Giovanni Rotondo («Un miracolo, e io non ho mai creduto: adesso sì»), poi l’ischemia alla gamba destra nel giugno dell’anno scorso: di nuovo il rischio di morire, l’operazione prodigiosa alle Molinette per salvare l’arto, il recupero, persino un libro, le ospitate in lacrime aVerissimo e da zia Mara, il giro di presentazioni con la voce ormai roca ma ancora netta, la voglia di scherzare e dissacrare. Poi, di nascosto da moglie e figlio, qualche sigaretta («Fumavo e bevevo dal mattino alla sera e mai una debolezza, ero sicuro di essere immortale»).Il campione diventato povero e il personaggio forse un po’ aiutato a ottenere una casa. Ma la porta è la periferia del gioco, e il portiere un uomo solo. Non è come gli altri, spesso gli gira in testa la corda pazza. Stefano è stato il più portiere di tutti e lo è anche adesso, dopo l’ultimo tuffo nel fango