La Stampa, 13 febbraio 2025
L’eredità non solo economica di Ferrero
Stacca il quadro dal muro. «Quest’uomo qui non era un blagheur. Lui le cose le faceva per davvero, ed è l’unico che ha dato da mangiare alla nostra terra. Per quel che mi riguarda resta lì, in alto. E dall’alto guarda tutti quelli che entrano». E lo riconoscono? «C’è gente che quando viene dentro a pagare la benzina, prima saluta me e poi saluta lui: “Ciao Michele”, e gli mandano baci e gli dicono grazie di tutto. Eh sì, persone come Michele non ne nascono mica tante».Cielo grigio, su questa giornata che porta dritto all’anniversario. Cielo grigio e niente vento. E il profumo dello zucchero, delle nocciole tostate e del cacao che in certi giorni entra fin dentro le case di Alba oggi, purtroppo, non arriva fin qui. E il signor Claudio Binello, benzinaio a due passi da piazza del mercato, rimette il quadro al suo posto: «Lui era Michele Ferrero, quello che ha inventato la Nutella. Quello che ci ha tirati via tutti quanti dalla fame brutta che c’era allora. E il quadro io lo tengo lì, con orgoglio».Dieci anni fa, proprio di questi giorni, moriva l’uomo che ha cancellato la Malora e reinventato la Langa. Se n’era già andato, qualche anno prima, suo figlio Pietro, ed era stata una tragedia. Ma quando mancò lui Alba si fermò paralizzata. Respirò i profumi della fabbrica e pensò che era finita un’epoca, non la fabbrica, ma un pezzo di storia stava scivolando via. «C’era una fiumana di gente lungo le strade che portano al duomo, il giorno del funerale di Michele. Quasi non si passava nemmeno qui in piazza. Sessantamila persone almeno» dicono adesso al Cafè do Dom, il bar che si affaccia proprio davanti alla chiesa dove dopodomani c’è messa per Michele Ferrero.L’uomo che, per dirla con le parole di Sergio Soave, ex docente di Storia contemporanea all’Università di Torino: «Ha cancellato quel mondo che ci ha fatto conoscere Fenoglio, e ci ha portati nell’Eldorado». O meglio ancora: «Ha creato una comunità, dando a tutti un’opportunità. Erano gli inizi degli Anni ’60 quando mandava i pullman a prendere i lavoranti nei paesi, e la sera li riportava a casa. Erano contadini che da tutta la vita zappavano una terra avara. Il lavoro nella fabbrica del cioccolato gli ha cambiato l’esistenza. Campavano sempre con i soldi guadagnati dalla terra, ma mettevano in banca quelli della fabbrica. Ed erano molti di più».Ecco, per capire Alba, e questo suo attaccamento alla Ferrero, al patriarca Michele in particolare, bisogna partire proprio da questi due elementi: il quadro e la malora scacciata. Il ricordo della fortuna avuta e quello della fame patita. E fare una camminata fino al piazzale davanti alla fabbrica. Dove, alle due del pomeriggio un’infilata di bus aspetta gli operai del cambio turno per riportarli a casa. Ogni autobus ha un’etichetta sul cruscotto: “Ferrero per Bra”, “Ferrero per Sommariva”, “Ferrero per Canelli”, “Ferrero per Montà”. Scendono quelli che iniziano il turno che finisce alle 22. Sale chi ha timbrato il cartellino alle 6. Borse di plastica bianca con i dolci comprati allo spaccio. Poche chiacchiere con gli estranei.La Ferrero è sempre la fabbrica mamma. E Michele è il faro per i più âgé e un mito di cui hanno sentito parlare molto tutti gli altri. «È riuscito a dare un’identità al territorio. Voleva la gente di qui a lavorare. E li voleva pure nei posti dirigenziali. Gente delle Langhe. Questo ha creato un rapporto unico, che ha ben pochi precedenti» ripete Soave. Un rapporto che ricorda quel che fece Adriano Olivetti con Ivrea. Lavoratori del posto a costruire macchine da scrivere. L’istruzione. La cultura per tutti. In una identificazione totale. Che, però, qui, ad Alba, era ancora nel pieno dello sviluppo quando la Olivetti già vacillava. E che oggi resiste solidissima. E tutti hanno a che fare, o hanno avuto a che fare, con la Ferrero. Con Michele. Con la fabbrica della Nutella, dei Tic tac. Dei Rocher. «Mio padre ha lavorato lì per tanti anni: ogni Natale, anche da pensionato, riceveva il pacco aziendale. Quando lui è morto, nel 2017, il pacco è arrivato a nome di mia mamma, che si chiama Rosa Casinelli. Fino al 2020 quando è mancata. Questo è quel che io chiamo l’amore di un imprenditore verso i suoi dipendenti» racconta Franco Cordero davanti ad un caffè in un bar del centro.Ha ragione, è questo, ma anche molto altro. Lo vedi alle 4 del pomeriggio nei locali della Fondazione Ferrero. C’è una mostra di Penone in corso in questi giorni. Alla segreteria si prenotano per gli ex dipendenti le visite mediche gratis e si distribuiscono i fogli con le consumazioni (anch’esse gratuite) al bar della fondazione: 60 caffè e 30 bibite al mese. «Michele Ferrero? Era uno di noi. Quel che abbiamo costruito nella nostra vita, lo abbiamo fatto grazie a lui» si commuove Silvana Mantovani. Poi è un fiume di ricordi. Enrico Franchello invece andarono a cercarlo a casa: «Vennero a Lequio Berria. Avevo 18 anni, facevo il contadino con mio padre. Offrirono a me e agli altri ragazzi del borgo un posto in fabbrica. Lo prendemmo di corsa. Era il 1970. Il primo stipendio fu di 45 mila lire: mai visti tanti soldi». E poi c’è l’alluvione del ’94 con Michele sempre in mezzo agli operai. Venuti volontari a sparlare il fango. Magari, come fece Silvana Mantovani, portandosi dietro il marito.Oggi la Ferrero è una multinazionale. Ma nell’immaginario è sempre «la nostra fabbrica». E Michele Ferrero è in ogni frase quando si parla di lavoro, di aziende e di tempi che cambiano. Ogni due per tre c’è un ricordo. Quello durante la visita di Nilde Jotti alla fabbrica: un’operaia che non aveva capito chi era tutta quella gente si rivolse al signor Ferrero più o meno così: «Michele, vieni un po’ a vedere sta macchina che va a petrolio». Quello degli operai che cacciarono a spintoni i sindacalisti venuti da Torino a fare un picchetto davanti alla fabbrica. E allora vien da pensare che ha ragione il professor Soave: questa è proprio la simbiosi del territorio con la Ferrero. Che non può fare a meno di quel profumo di Nutella che si sente ad Alba nei giorni di vento leggero. —