la Repubblica, 13 febbraio 2025
Fine vita: «Una la possibilità di morire con dignità»
ROMA – Voce ferma, aspetto curatissimo e la tenacia della disperazione. «Fino a che potrò, in disordine non mi vedrete mai», dice Martina Oppelli, 49 anni, affetta da sclerosi multipla secondaria progressiva, una laurea in architettura e un lavoro, ancora oggi, come funzionaria pubblica. È forte Martina, come chi non ha più nulla da perdere. «La legge toscana è un primo passo, una porta che si apre. Io però vorrei morire qui, a casa mia, a Trieste, sono infinitamente stanca e sofferente. Ormai non muovo quasi più nulla, vivo assistita ventiquattro ore su ventiquattro, ho dolori e spasmi continui. Se perderò la battaglia contro l’azienda sanitaria Giuliano Isontina che per due volte ha calpestato i miei diritti, il mio ultimo viaggio sarà per la Svizzera. Ho tutto pronto già da tempo, basterà partire. E quel giorno si avvicina».Martina, qual è la sua condizione oggi?«Sono immobile, ho perso l’uso di tutti gli arti, non riesco più nemmeno a tenere la testa, dipendo da due badanti che mi assistono giorno e notte, continuo a lavorare grazie a un puntatore oculare, se smettessi non saprei come sopravvivere e pagare le mie cure».Assistita dall’associazione Luca Coscioni e dall’avvocata Filomena Gallo lei ha diffidato la sua Asl di competenza, che per due volte le ha negato l’accesso al suicidio assistito.«La commissione medica ha affermato che non avrei i requisiti previsti dalla Corte Costituzionale.Essere affetti da una malattia incurabile, essere in grado di fare scelte libere e consapevoli, provare sofferenze insostenibili e dipendere da trattamenti di sostegno vitale».Il ritratto purtroppo della sua condizione Martina, manifestata, così ho letto, quando aveva soltanto 28 anni.«I sintomi però erano già presenti prima. Avvertimenti, segnali, un ginocchio che crolla, le gambe che all’improvviso tremano. Ero una ragazza che non si fermava mai, ballavo, sciavo, viaggiavo, adoravo l’architettura, magari prendevo un aereo soltanto per andare ad analizzare i bulloni della Torre Eiffel. Proprio a Parigi nel 1999 sentii quella morsa alla gamba che non mi avrebbe più abbandonato. Nel 2002 arrivò la diagnosi, nel 2006 la prima stampella, nel 2008 la seconda stampella, nel 2009 la sedia a rotelle. È una progressione senza speranza».Perché allora le è stato negato l’accesso al suicidio assistito?«A loro giudizio nella mia condizione mancherebbe un solo requisito, cioè la dipendenza da trattamenti vitali. Ossia essere collegati a un respiratore, oppure nutriti artificialmente. Io vengo imboccata, dipendo da una macchina della tosse ma soprattutto senza assistenza continua potrei morire».Ci spieghi Martina.«Sono immobile, immobile, se qualcuno non mi gira nel letto resto nella stessa posizione tutta la notte, ho le piaghe da decubito, la testa ormai mi cade in avanti, il tronconon mi regge, se non prendo antispastici, antiepilettici e antidolorifici potentissimi tipo il Fentanyl, vengo devastata da dolori disumani. Devo essere aiutata nelle funzioni primarie pi ù intime. Non sono questi sostegni vitali?».Lo sono certamente. Anche alla luce della nuova sentenza della Consulta del luglio 2024.«Senza contare che quanto è stato negato a me, è stato invece concesso a una donna nelle mie stesse condizioni. Si chiamava Anna, aveva la sclerosi multipla e viveva a Trieste. È potuta morire qui, la Asl le ha dato il farmaco, la strumentazione, un medico che l’ha assistita. Oggi le sue sofferenze sono finite, le mie continuano».Ogni giorno lei si fa pettinare, vestire, truccare e a distanza interagisce con i colleghi. Come riesce a resistere?«Con una fatica insopportabile, ma non posso smettere di lavorare e guadagnare. Sono una donna sola, chi pagherebbe le mie assistenti, le mie cure, i miei farmaci? E vivo in un territorio dove la sanità pubblica funziona».Dopo il secondo diniego della Asl lei ha definito la sua condizione “tortura di stato”.«Una tortura sempre più feroce. Come vi sentireste se foste legati con corde strettissime, oppure chiusi in un sarcofago. Un filo d’erba è più libero di me. Esisto grazie al corpo degli altri, come i paguri che si attaccano alle conchiglie vuote per sopravvivere. A me piace la parola eutanasia, vuol dire buona morte, tecnicamente è qualcosa di diverso dal suicidio assitito, in entrambi i casi vuol dire andare via dolcemente. Ed è quello che spero. È bello che la Toscana abbia una legge che dà tempi certi, è una speranza».Quando ha deciso che sarebbe andata in Svizzera?«Il 6 aprile del 2023. Se l’Italia mi costringerà a emigrare per morire, emigrerò. Alla vita ho già detto addio».