Corriere della Sera, 13 febbraio 2025
L’arma spuntata della sfiducia: una storia di flop (82)
C’è da giurare che nessun bookmaker accetterebbe scommesse sull’esito della mozione di sfiducia contro Carlo Nordio. Perché tutti punterebbero sulla bocciatura, e quindi, pure pagando un premio di un centesimo, eh be’, alla fine sarebbe una bella tombola o, meglio, un bel capitombolo. Non che non sia una cosa seria, intendiamoci, perché si chiede, non si sa se come giusta pretesa, di cacciare un ministro non più degno di rappresentare l’Italia. E pure il merito è più che serio, perché si accusa il Guardasigilli di un presunto comportamento omissivo, che ha consentito al governo di far salire un torturatore, il generale libico Najeem Osama Almasri, su un aereo di Stato, che sarebbe poi atterrato a Tripoli tra i festeggiamenti. E pure sul giudizio destra e sinistra sono concordi: è un delinquente, colpevole anche di stupro su un bambino di cinque anni. Ma c’è pure da dire che più d’uno nel centrodestra ha anche evocato la ragion di Stato, sostenendo che trattenerlo nelle carceri italiche avrebbe messo a rischio vita e libertà degli italiani in Libia, oltre che esporre il Paese a un’ondata ritorsiva di sbarchi di immigrati. Cosa, anche questa, che destra e sinistra attraversa, Marco Minniti insegna.
E quindi, averlo liberato, fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza. Ma adesso, a fronte della mozione di sfiducia contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio, la numero 84 nella storia della Repubblica, ha senso una battaglia dall’esito già scritto? Le opposizioni, che si chiamano così perché non hanno la maggioranza, hanno una possibilità di vittoria? E la maggioranza, che si chiama così perché ha abbondanza di voti, teme davvero il confronto?
Ci fu un tempo, come raccontano coloro che non hanno paura di confessare l’età ormai raggiunta, che si entrava nelle Istituzioni straconvinti della propria idea, ma pronti a smussarla, se non a cambiarla, attraverso la discussione, così a lungo negata negli anni del fascismo. Ma fu davvero così?
La cronaca ci racconta una storia diversa. In principio, era il 1984, fu Giulio Andreotti, ai tempi ministro degli Esteri. Allora pareva quasi che fosse possibile metterlo nell’angolo, ma fu il realismo del Pci a consentire che non affondasse sull’affare Michele Sindona. Da quella volta in poi, l’unico che avrebbe diritto di fare causa fu Filippo Mancuso. Non che non ci fosse tutto il diritto di cacciarlo a mani basse, maggioranza e opposizioni quasi unite, dopo i suoi attacchi ai magistrati di Mani pulite e al presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Ma perché, prima e dopo di lui, nessun altro fu mai più sfiduciato, e allora uno dice: perché solo io?
Vecchia scuola della politica insegnerebbe che non pretendi, addirittura con un voto, una cosa che non puoi ottenere. Ma una scuola si chiama vecchia proprio per un motivo, perché ormai è vecchia. E allora eccoli qui, tutti insieme, anzi quasi tutti insieme, a chiedere la sfiducia per Nordio.
A indicare la via è il Movimento 5 Stelle. Vatti a tirare indietro se loro partono in quarta, fai la figura del colluso. E figuriamoci se Elly Schlein si fa parlare dietro. Poi Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli manco a dirlo. E Matteo Renzi pure, ora che si è totalmente vocato all’opposizione, è della partita. Carlo Calenda la mozione non la firma, ma è pronto a votarla, perché hai visto mai. Qualche cosa, comunque, si ottiene: un dibattito pubblico, in diretta tv, dove comunque si può dire quello che si pensa, un po’ realtà e un po’ propaganda. Male che vada, tutto fieno in cascina per le elezioni politiche, che prima o poi arriveranno.
Il centrodestra, pure esso avvezzo alla propaganda, se la gioca dall’altro lato. Eccola qui la sinistra che ci fa perdere tempo, mentre c’è da occuparsi delle cose che servono al Paese. Pure per loro la partita è a doppio taglio, guardando alle sfiducie precedenti. Da una parte devono giurare che Matteo Salvini non è putiniano. Dall’altra devono salvare Daniela Santanchè, l’unica che finora ha avuto il coraggio di opporsi a Giorgia Meloni, perché pure i sassi lo sanno che, se si dimettesse, non se ne farebbe un cruccio.
E comunque per ora si va avanti così. Con emicicli semi deserti, con i leader delle opposizioni che a volte ci mettono la faccia e altre volte mandano avanti le seconde file, con la presidente del Consiglio che si fa vedere solo se non ha niente di meglio da fare, con cartelli vietati dal regolamento che compaiono un po’ per fare scena e un po’ per dare ai commessi qualche cosa da fare. Non è una grande prova per ribadire la centralità delle Camere, e alla lunga non può che logorare lo strumento della sfiducia individuale nei confronti dei ministri. C’è indubbiamente della demagogia nel dire del ministro degli Affari europei Tommaso Foti, che vaticina polemicamente che «prima o poi avremo tutti una mozione di sfiducia», ma alla fine un cambio di passo non farebbe male. Anche per aiutarci a capire. Perché, come direbbe Ennio Flaiano, va bene che «in Italia la linea più breve per unire i due punti è l’arabesco», ma anche basta.