la Repubblica, 11 febbraio 2025
Munch in mostra
Nell’Autoritratto fra il letto e l’orologio, ultimo di 45 e dipinto fra il 1940 e il 1943, Edvard Munch – ora in mostra a Roma, a Palazzo Bonaparte (fino al 2 giugno) – si congeda, da sé stesso e da noi, in piedi. Saldo sulle gambe malferme di ottantenne (infatti prudentemente divaricate), vestito con dignità, ci guarda, anche se i lineamenti del volto, incorniciati da radi ciuffi di capelli grigi, sono appena abbozzati. Ci permette di intrometterci nell’intimità della sua stanza (del letto si vedono la testiera e la sovraccoperta a righe). Dietro, sulle pareti sono appesi due quadri (un nudo femminile e un ritratto). La porta si spalanca su un indefinito spazio azzurro. Accanto a lui svetta una pendola di legno bruno, alta e sottile. L’analogia formale tra il pittore e l’orologio è voluta. L’ora non si legge, il quadrante d’ottone è solo un globo luminoso. Come le mani di lui, inerti lungo i fianchi, non dipingeranno più, così l’assenza delle lancette rivela che il suo tempo si è concluso. La morte è stata una presenza ossessiva e minacciosa nella sua biografia e nella sua pittura, come si può constatare osservando la serie di quadri incentrati sul ritorno di una scena primaria dell’adolescenza: la morte per tubercolosi della sorella Sophie. Munch l’ha raffigurata più volte, in modalità sempre diverse, dal naturalismo borghese fino all’astrazione (il lutto personale diventa simbolo universale della perdita). La convinzione o il timore di essere a sua volta minato dalla tisi e dalla tara della follia hanno strutturato la personalità di Munch, determinando le sue azioni, la sua arte e anche il suo destino. Non sposarsi mai, non avere figli, votarsi alla libertà maledetta dell’artista.
La sua pittura, di cui teorizzava la funzione “narrativa”, e che è stata definita un “diario visivo”, si è via via aggrumata intorno a scene della sua vita, appunto, e a pochi temi, più volte rielaborati. I più noti sono la Disperazione e l’Angoscia – che gli ispirarono il celeberrimo Urlo, ma anche le opere dagli omonimi titoli (il magnifico olio del 1894 e le xilografie del 1896), e l’enigma della Donna. Attraente e insieme repulsiva, essa gli ispira le serie di Madonna e di Vampiro, nonché quella più allegorica sulla relazione uomo- donna (di cui possiamo vedere Gelosia e Consolazione, nelle versioni del 1907). Ma se l’identificazione della donna col Vampiro riflette una visione comune agli uomini del tardo Ottocento, quando alla progressiva emancipazione femminile corrisponde l’elaborazione filosofica del pensiero misogino, nonché la cristallizzazione del mito della femme fatale (si pensi al successo della figura di Salomè in teatro, in musica, in arte, al trionfo delle Arpie, delle Sfingi e delle varie Donne-mostro nella pittura simbolista e decadente), il lavoro che Munch ha fatto su se stesso ci appare più in sintonia con la teatralizzazione dell’Io che oggi tutti coinvolge. Munch non ha mai smesso di confrontarsi col suo riflesso nello specchio e ha dialogato con quel fantasma intimo e insieme estraneo tutta la vita. La sezione “Di fronte allo specchio” ci permette di scrutarlo mentre diventa sé stesso – si cerca, si trova, si perde, si accetta. È un’esperienza straordinaria. Nel primo autoritratto (1882-83), ancora tradizionale, Munch, di tre quarti, indossa una giacca di velluto marrone sulla camicia bianca; al collo, un papillon. Nulla allude alla sua professione di pittore – del resto ancora un’aspirazione. Biondo, occhi azzurri, lineamenti regolari, ha l’espressione altera e intransigente dei ventenni. Tredici anni dopo, nella litografia del 1895, Munch sceglie la posa frontale (come Dürer e Tintoretto). Indossa un abito da prete, col colletto bianco, ha i baffetti e i capelli già diradati sulle tempie. Il corpo è inghiottito dal nero dell’inchiostro, e chissà a chi appartiene il braccio dello scheletro che fa da cornice. Ma intanto ha rotto con la pittura borghese, è stato a Parigi, si è trasferito a Berlino, è diventato un bohémien. Nell’ultimo decennio del XIX secolo, per gli artisti d’avanguardia, respinti ai margini della società o da questa autoesclusi, l’autoritratto, perduto ogni intento celebrativo, è diventato il manifesto del disagio, dell’alienazione: un dialogo franco, talvolta brutale, con l’interlocutore. Quando, nel 1903, Munch dipinge il visionario Autoritratto all’inferno, si mostra nudo tra le fiamme. Un’anima caduca e già dannata, un uomo aggredito, indifeso come una larva, che sta per essere distrutto. Ma non sarà così. A Warnemünde, località di villeggiatura sul mar Baltico, il pittore scopre la bellezza del nudo maschile. Prima il proprio di quello altrui, come nel vitalistico autoritratto fotografico del 1907: il corpo atletico non lascia trasparire l’inferno dell’ultimo decennio – l’alcolismo, le crisi psichiche, la traumatica separazione da Tulla Larsen, l’imminente ricovero in clinica.
Negli autoritratti del decennio successivo si raffigura col blocco degli schizzi (1914-19), in una scena quasi domestica di routine professionale; in viaggio a Bergen (1916), perplesso, incapace di relazionarsi col paesaggio retrostante; e ancora, in Dopo la febbre spagnola (1919), emaciato, con barba incolta e occhiaie. Forse l’unica raffigurazione pittorica dell’epidemia, forse un omaggio al prediletto Goya, che si raffigurò morente fra le braccia del suo dottore (ma sopravvisse, come Munch). Spettro inquieto nel Viandante notturno (1923-24), scostante in Davanti al muro di casa (1926), impeccabile nel 1930 a Ekely, quando si regala una serie di autoritratti fotografici: con cappello o senza, ci consegna il profilo affilato e volitivo. Gli occhiali gli permettono di vedere lontano – ma ciò che lo incuriosisce è altrove. Nel tardo autoritratto dipinto nello stesso periodo di quello con l’orologio, è a tavola: un elegante anziano signore coi baffetti, coltello e forchetta in mano. Nel piatto c’è una testa di merluzzo. Ma la pietanza somiglia in modo inquietante alla testa del montone che Abramo sacrifica al posto di Isacco. È la memoria visiva involontaria che agisce? Il pittore viveva allora quasi recluso nella sua proprietà vicino a Oslo, durante l’occupazione nazista della Norvegia, mentre ovunque infuriava la guerra mondiale. Chissà se quel merluzzo- capro non allude anche ai figli sacrificati, e alle colpe della generazione di padri cui lui apparteneva.
E infine l’orologio, col tempo fermo. Le opere alle spalle, davanti il grigio del pavimento, il vuoto, la morte. Eppure l’autoritratto estremo di Munch è un quadro sgargiante, acceso di luce e di colori. L’artista, stanco, va incontro alla morte senza vacillare. Ha abitato il dolore, ha attraversato l’Inferno, è bruciato («siamo fiamme», aveva scritto). Ma è ancora vivo – e dipinge con la freschezza di un esordiente. Creativa e libera è stata la vecchiaia di Tiziano, Rembrandt, Picasso – e di Edvard Munch.