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 2025  febbraio 09 Domenica calendario

Intervista a David Almond

David Almond è un autore che ha la straordinaria capacità di cercare (e trovare) la meraviglia della vita nei piccoli gesti quotidiani. È successo spesso nei suoi libri e succede ora nel nuovo Mina e il sogno di carta (da 8 anni); «la Lettura», in occasione dell’uscita del libro in Italia (martedì 11 febbraio per Salani), ha intervistato l’autore inglese, vincitore nel 2010 del premio Hans Christian Andersen, il Nobel della letteratura per ragazzi.
Da dove le viene questa capacità? Ha un suo cercatore di meraviglie?
«Il mio cercatore di meraviglie? Beh, immagino siano solo i miei occhi, le mie orecchie, la mia attenzione. Sì, le meraviglie si trovano davvero nei piccoli gesti, nei piccoli momenti, nei piccoli oggetti. Sono impressionato dalla grandezza del nostro mondo e dalla vastità dell’universo, ma come tutti noi posso rimanere estasiato da stranezze/frammenti. William Blake lo ha detto bene: “To see a World in a Grain of Sand/ And a Heaven in a Wild Flower/ Hold Infinity in the palm of your hand / And Eternity in an hour” (“Vedere un mondo in un granello di sabbia/ E un paradiso in un fiore selvatico/ Tieni l’infinito nel palmo della tua mano/ E l’eternità in un’ora”, ndr). I versi aprono la poesia Auspici di innocenza».
O lo scrittore è andato a cercarlo?
«Mina è molto importante per me e il mio lavoro. Non se ne andrà mai! Sì, è arrivata mentre cominciavo a scrivere la storia. È iniziato dal ricordo di un incidente su un autobus con mia figlia Freya, ho subito capito (o me lo ha detto Mina!) che doveva essere una storia su Mina».
Sì, nel libro Mina si incuriosisce di una signora che sull’autobus sta facendo gli origami e da lì inizia tutto. La curiosità è il motore delle storie? E della vita? È un atteggiamento che i bambini hanno ma che crescendo perdono?
«Sì, la curiosità è davvero fondamentale. Per scrivere bene dobbiamo essere attenti a ciò che accade intorno a noi, essere aperti a nuove possibilità, a nuove storie. Non è che io vada a caccia di storie, ma mentre vago per il mondo le storie spesso mi si mostrano semplicemente: spesso solo un momento, un frammento, un’immagine, uno sguardo che potrebbe essere la strada verso una narrazione più ampia. Immagino che i bambini lo capiscano naturalmente man mano che crescono e trovano il loro posto nel mondo. Forse possiamo perdere questa sensibilità invecchiando o quando veniamo distratti dal lavoro, dalla necessità di guadagnarci da vivere, eccetera. Ma dobbiamo mantenere vivo il senso di meraviglia, continuare a coltivare un aspetto infantile. Fare arte, scrivere storie, fare musica, cantare, ballare sono tutte attività infantili. Aiutano a rinfrescare il mondo, a mantenerci in vita».
Il piacere di incontrare gli altri e di scoprire culture diverse passa anche dalla lingua. Nel libro, ambientato in Giappone, conosciamo parole di uso comune («konnichiwa», ciao; «arigato», grazie) o luoghi (Kinnaku-ji). Conta sentire come risuonano in bocca. Le parole sono chiavi d’ingresso?
«Sì. Le parole sono davvero chiavi. Sono suoni, oggetti, portatori di significato e di bellezza. E sì, è fondamentale ricordare che le parole si producono nella bocca, sulla lingua, nel corpo così come nel cervello. Scrivere è un atto fisico».
Nella «Postfazione» scrive: «Le storie ci uniscono, come tutte le arti. Le storie sono atti di ottimismo e speranza». Forse questo è un periodo storico (pandemia, guerre, cambiamenti climatici) in cui ne abbiamo più bisogno. È d’accordo? Guardando il mondo in cui viviamo, che cosa la rende triste?
«Oh, tante cose nel mondo possono portare alla tristezza: le guerre, la crudeltà, la carestia, la disuguaglianza... Può essere così difficile rimanere ottimisti. Ma dobbiamo continuare a lavorare e a creare. Come tutti gli artisti e come i pasticcieri, i calciatori, i falegnami, i costruttori di barche, i parrucchieri cerco di creare qualcosa di bello (anche se quella bellezza potrebbe contenere la sua stessa oscurità). I nostri bellissimi oggetti, atti, speranze e sogni funzionano contro le forze della distruzione».
Nella parte finale si scopre anche il suo incredibile e prezioso incontro con l’imperatrice giapponese Michiko. Cosa ha risposto all’imperatrice e ai tanti adulti e bambini che come lei le hanno detto: «Mi sento come Mina»?
«È incredibile, davvero. Ragazze e ragazzi, uomini e donne provenienti da tutto il mondo e l’imperatrice del Giappone (!) mi hanno detto: “Mi sento come Mina”. Ero così felice che l’imperatrice Michiko me lo avesse detto. Le ho parlato delle molte persone che hanno detto la stessa cosa, e abbiamo riflettuto sul fatto che questo mostra come le storie, e i personaggi al loro interno, si avvicinano davvero, ci mostrano gli uni agli altri e ci avvicinano. Quando me lo chiedono, rispondo che anch’io mi sento Mina. Lei è parte di me. Quando ho scritto My Name is Mina (titolo originale del libro del 2010, uscito in Italia come «La storia di Mina» nel 2011, ndr), ho avuto la sensazione che lei parlasse attraverso di me».
Come ha lavorato sulla storia? Durante la lettura del romanzo, l’impressione è che lei l’abbia levigata per renderla quello che è? Oppure è nata così?
«La storia è venuta fuori abbastanza spontanea. Ho descritto l’episodio sull’autobus quasi esattamente come è accaduto nella vita reale. Una volta che la signora degli origami è scesa dall’autobus, il resto della storia ha preso forma. Una volta finito, ho ripercorso tutto per rifinirlo, ovviamente, ma la maggior parte del lavoro è venuto in modo abbastanza naturale. È strano quando ciò accade, come se la storia fosse già lì, come se aspettasse soltanto di essere scritta».
Riguardo la trama, dall’esperienza di Mina e di Mikio, l’altro ragazzo della storia, sembra che il gioco e la fantasia appartengano solo ai ragazzi. È così?
«No, le ragazze e i ragazzi (e tutti noi) hanno una forte immaginazione e la capacità di giocare. Mina mi sembra un personaggio molto giocoso. Gioca con le idee, con le parole, così come con le sue azioni».
A un certo punto Mina e Mikio potrebbero incontrarsi, ma le loro vite si sfiorano soltanto. Perché?
«Penso che la storia portasse proprio a quel punto dell’ultima pagina in cui i due si riconoscono per la prima volta. È l’incontro di tutti gli elementi del racconto. Sentivo che questo momento era l’inizio di una nuova storia: quando si sarebbero incontrati davvero e forse avrebbero trascorso del tempo insieme; ma quella sarebbe stata un’altra storia!».
La mamma di Mina ripete alla figlia: stammi vicino, non perderti. Il padre di Mikio lo chiama, lo cerca, gli chiede: dove sei? Sembra quasi che se non ci fossero gli adulti a prendersi cura di loro, i bambini potrebbero volare via verso altri mondi fantastici, magari... i giardini selvaggi di cui parla l’imperatrice Michiko. Cosa ne pensa?
«Bella idea! Sì, gli adulti sono lì per prendersi cura e proteggere i bambini, ma la loro attenzione deve essere sufficientemente libera da consentire ai bambini di entrare nel mondo e nella propria immaginazione. C’è un libro illustrato, La donna che trasformava i bambini in uccelli che suppongo esplori questa idea (Almond fa riferimento a un suo libro, illustrato da Laura Carlin, pubblicato in italia nel 2022 da Camelozampa, ndr)».
Il titolo italiano «Mina e il sogno di carta» è diverso dall’originale («Paper Boat, Paper Bird»). Le piace?
«Sì, mi piace il titolo italiano! Mi sembra giusto inserire il nome di Mina».
Sia il titolo inglese che quello italiano hanno la carta al centro. Nella tradizione giapponese dell’origami, la carta è un oggetto da manipolare. E sono proprio quegli oggetti a «viaggiare» nella storia. Lo scrittore è a suo modo un creatore di origami. Si riconosce?
«È un’ottima idea: che lo scrittore sia un creatore di origami. Grazie! Sì, spero che le mie storie fluttuino e volino come gli oggetti nel libro, e che siano catturate da mani e da menti accoglienti. Quindi sì, riconosco me stesso e il mio libro. Il mio origami ha volato lontano e ha fluttuato fino in Italia. Arigato!»
Il suo libro ci ha ricordato qualcosa del film «Perfect Days» di Wim Wenders. L’ha visto? È d’accordo?
«Sì, ho visto quel film meraviglioso. E sì, riconosco soprattutto l’attenzione del film all’“ordinario”, al “luogo comune”».
Parlando del Giappone, tre curiosità. Una cosa che le piace? E come si trova con la lingua? E poi: ha imparato a fare gli origami?
«Posso dire solo una cosa!? Mi piace la cancelleria. Invece non sono molto bravo con la lingua, anche se adoro ascoltarla e vederla. E con la carta posso realizzare una barca e un uccello, non troppo belli».
A proposito dell’Italia, due flash. Una cosa che le piace? E quando torna a trovarci?
«Anche qui solo una!? Allora dico: il cibo. Sarò in Sardegna in autunno, al meraviglioso festival Tuttestorie».
Infine, quale parola scriverebbe su un pezzo di carta, una barca o un uccello, prima di lasciarlo volare via?
«Amore».