La Lettura, 9 febbraio 2025
Una storia pubblica, una Germania privata
Dopo il Gruppo 47 (Günter Grass, Ingeborg Bachmann, Uwe Johnson) gli scrittori tedeschi di maggior influenza, almeno in Italia, sono Christa Wolf, Botho Strauss, Herta Müller, W.G. Sebald e l’ottantaquattrenne Uwe Timm. Se diciamo Uwe Timm e pensiamo a Sebald sembrerebbe non esservi paragone: da Sebald discende una quantità di letteratura narrativa in tutto il mondo, dal norvegese Karl Ove Knausgård alla canadese Rachel Cusk. Diverso il caso di Timm, nato ad Amburgo nel 1940 e del quale sono stati da noi tradotti otto romanzi, l’ultimo dei quali, Tutti i miei fantasmi, è del 2023. Perché è diverso il caso di Timm? Non posso che semplificare: perché i suoi sono romanzi tradizionali: vi ha raccontato non solo la storia di vicende sue private ma una buona parte della storia del dopoguerra tedesco. Di maggior consistenza sono Rosso (il colore del sangue e della rivoluzione: il colore sul quale il protagonista vuole scrivere un saggio) e La volatilità dell’amore, una interpretazione, o una riscrittura, de Le affinità elettive di Goethe.
In Tutti i miei fantasmi invece Timm torna indietro nel tempo e per la prima volta parla di sé: della sua adolescenza, dai quattordici ai ventun anni: è in buona sostanza un romanzo di formazione. Ma nonostante il racconto vada nel tempo da un punto all’altro, a volte con esasperata precisione, in realtà è frastagliato, magmatico, avanza e arretra, arretra e avanza di nuovo. E poi: è davvero il racconto di un’adolescenza e non piuttosto, e meglio, lo sprofondamento in un’antica vocazione, intrapresa e poi abbandonata in nome di una vocazione più grande per la letteratura?
Il romanzo è diviso in due parti. Nella prima il padre di Uwe, di ritorno da Coburgo, in Pomerania, ad Amburgo, una città in rovina («montagne di macerie»), dà vita a una pellicceria, una piccola bottega senza alcuna pretesa di concorrenza con la ben più avviata azienda dell’imprenditore Erich Levermann. Ed è proprio presso Levermann che il padre spingerà il figlio alla fine della sua Volksschule (scuola elementare e media inferiore): «Meglio un buon allievo di una scuola professionale che un cattivo ginnasiale». Accanto (o meglio nelle loro mani) ai tanti personaggi che tra breve ricorderò, il vero protagonista di questa prima parte diventa la pelliccia. Che cos’è una pelliccia? Quanti tipi di pelliccia vi sono? Come la si lavora e perché prima lo stato sociale della persona poteva essere individuato dal tipo di pelliccia che indossava e ora la pelliccia quasi non esiste più?
Nell’azienda di Erich Levermann gli impiegati, uomini e donne, sono numerosi. Walther Kruse è il maestro socialista che mai rinnegherà i suoi ideali. Breitkamp, «che aveva sempre bisogno di qualcuno che ascoltasse le sue avventure amorose», si occupa del tirocinio del quattordicenne. Drechsler è un artigiano che tende a intimidire la cucitrice a macchina Annabell, sebbene di lei innamorato. Jäckel è il caporeparto. Mansfeld è il barbiere, reduce da un campo di prigionia negli Stati Uniti. Erik è un pianista alle prese con un pianoforte piuttosto rovinato. Più tardi, Uwe viene affidato a Dieter Zoern, «un tipo particolarmente raffinato» e Zoern lo passerà a Johnny-Look, «uno che rimuginava di continuo. Uno che poneva domande, si meravigliava, che osservava le nuvole».
Sono le persone che formeranno il carattere del narratore. Da Erik avrà in dono la passione per il jazz e oltre, per il free jazz, forse a causa di quel pianoforte scordato. Con Johnny-Look leggerà La libertà del volere umano di Schopenhauer e da lui sentirà il nome di Kafka, il giorno in cui il nuovo amico gli racconterà La metamorfosi, libro che cambierà la sua vita.
Ma a proposito di libri, essi sono la scia sotterranea dell’educazione sentimentale di Uwe. «Se ricordo bene», dice. Prima Il vecchio e il mare di Hemingway e L’isola del tesoro di Stevenson; ma soprattutto Il giovane Holden, che analizza nel modo in cui fu per lui significativo. Ma ancora di più L’idiota di Dostoevskij, al quale dedica (al principe Myskin) alcune tra le pagine più belle del libro; e Gottfried Benn: è riflettendo sulla distanza tra la sua vita e la sua opera che capisce quanto vuoto possa correre tra l’una e l’altra.
È un pensiero nevralgico. Nella seconda parte, quando Uwe torna da Levermann nelle «Pellicce Timm» il padre, a soli quarantotto anni, muore a causa di un infarto. Si scopre (lo scopre la madre) che vi sono una quantità di debiti – cambiali contratte per mandare avanti un lavoro che comincia a non essere fruttuoso come nei primi anni del dopoguerra. La richiesta di pellicce diminuisce, cominciano a farsi largo le pellicce non più lavorate a mano. La madre e la sorella continuano a lavorare in sartoria: gli animalisti incalzano, lo stilista Zoern se ne va dalla Germania, si trasferisce in Marocco, diventa ricco. Uwe è vicino alle donne della sua famiglia, però deve studiare per entrare nel Collegio Braunschweig: in due anni si recuperano gli esami di maturità e si ottiene una borsa di studio. È a questa altezza che avviene una svolta: leggendo l’Odissea Uwe capisce di essere fondamentalmente un anarchico; rinforzano la sua convinzione la scoperta di Camus (Lo straniero, quel modo di guardare e raccontare, mantenendo le distanze, non lasciarsi mai andare) e, ricevuto in regalo dall’architetto Lothar Loewe, l’opera completa di tre volumi di Brecht: il teatro, Berlino, l’addio ad Amburgo.
Nella prima parte c’è una breve storia d’amore (la più reticente e quasi misteriosa che si possa leggere). L’Intoccabile si concede, almeno così si può intuire. Uwe è giovane, è entusiasta, è felice, lo racconta a un compagno di lavoro. L’Intoccabile per puro caso lo ascolta. Senza alcun indugio, lo pianta, non gli rivolge più la parola. Nella seconda parte, quando Uwe è un po’ più grande e ha letto Tropico del Cancro di Henry Miller e addirittura Anaïs Nin, va a una festa con l’amico Jensen e incontra Lilith. Anche di Lilith Tutti i miei fantasmi non ci dice molto. Dice che lei vuole da Uwe che veda il suo amante per «salvarla»: Lilith la cosa che desidera di più è conciliare l’uomo e l’animale. Ma all’improvviso sparisce, se ne va in America. L’unica consolazione per Uwe è un altro regalo, le poesie di Invocazione all’Orsa Maggiore di Ingeborg Bachmann: è il regalo di una ragazza di cui non ricorda il nome.
La memoria è oscillante, tormento e privilegio. Nel ricordo delle pellicce, di come si lavorassero, c’è la grazia del libro di Timm. «Le pelli della conceria sapevano del legno di segatura con cui venivano depurate oppure d’una spezia orientale. Era necessario calcolare con precisione, in base ai cartamodelli, la lunghezza delle parti dei cappotti o dei mantelli, delle giacche o delle stole. Per raggiungere la lunghezza di un cappotto le pelli di visone andavano tagliate a strisce e ricucite insieme. Un lavoro che richiedeva mano ferma e precisione, quando le strisce erano larghe solo mezzo centimetro».
In questo romanzo, privo di momenti salienti e che si direbbe privo di emozioni, l’altra grazia viene da quella «mano ferma» e da quella «estrema precisione» – quando all’improvviso, più e più volte, si coglie una pausa, un attimo di silenzio – o un impercettibile scarto nella linea del racconto – o della memoria. Cos’altro è questo se non il suono ereditato dall’ascolto giovanile di Kind of Blue di Miles Davis o, come nella riga finale, dalla «melodia sincopata» di Charlie Parker? Cos’altro è se non l’ineguagliabile, impercettibile stile di Uwe Timm, uno stile che sembra sempre fuggire da sé stesso?