Corriere della Sera, 11 febbraio 2025
Biografia di Ottavio Missoni raccontata dal figlio
Luca Missoni, lei porta un cognome ingombrante?
«Dico di no. A me, a mia sorella Angela e a mio fratello Vittorio non ha mai importato, né pesato, che i genitori fossero famosi».
Il genio era più di papà Ottavio, del quale oggi, 11 febbraio, ricorrerebbe il compleanno, o di mamma Rosita, mancata lo scorso 2 gennaio a 93 anni?
«È un “rimpiattino”. Papà diceva: “Il genio creativo sono io, ma è la Rosita che ha creato me”. Una funzione biunivoca, insomma».
Ci fa un ritratto dei genitori?
«Mamma era molto seria. Autoritaria? No. Aveva una gioiosa austerità, mutuata dal padre. Ma è stata anche cordiale e materna: ha curato la nostra educazione. Non è che papà non intervenisse, però con lui soprattutto giocavamo. E ci insegnava ad affrontare le cose senza prenderci sul serio».
Com’era l’Ottavio sportivo?
«L’abbiamo “incontrato” quando era nella mezza età: lo vedevamo nuotare nel mare della Dalmazia, al tennis si avvicinò quando ci trasferimmo a Sumirago, dove avviò pure i tornei di ping pong. Quello precedente è nei ricordi di foto e articoli».
Era competitivo e proveniva da uno sport che premiava la poliedricità.
«A 16 anni era già nella Nazionale di atletica, nei 400 metri: è ancora un record. E a 27, a Londra 1948, disputò una finale olimpica: all’epoca si qualificavano solo in 6. Ai Giochi indossava una tuta prodotta da sé stesso: a Trieste aveva infatti aperto un laboratorio di maglieria assieme all’amico Giorgio Oberweger, discobolo e poi c.t. dell’Italia. In un anno misero a punto la produzione di tute: la squadra olimpica le adottò».
È stato poi uno sportivo longevo.
«Ha praticato sport fino alla tarda età: a 90 anni si “limitava”, allenandosi però ogni giorno, al getto del peso e al lancio del giavellotto. Ha sempre annotato i risultati: se vedeva miglioramenti, insisteva; sennò abbandonava per qualcosa che nella sua idea lo potesse portare a primeggiare».
Nel lavoro aveva la percezione di essere un precursore?
«Frequentava l’avanguardia milanese di Brera con la sua atmosfera vivace. Un amico gallerista, Renato Cardazzo, lo invitò a esporre i suoi tessuti al Cavallino di Venezia, presentandolo come un artista. Da quel momento, siamo nel 1975, iniziò una fase di autostima: il lavoro diventò una scusa per creare cose con cui aveva piacere di confrontarsi, nel suo caso tessuti e colori».
Vittorio e la sua drammatica morte in un incidente aereo nel 2013 a Los Roques: quanto ha cambiato la vostra vita?
«Purtroppo ha inciso parecchio. Quattro mesi dopo è morto anche papà: il cuore è andato per i fatti suoi. Ottavio teneva banco, era cordiale, sapeva “esistere”: la disgrazia di Vittorio ha offuscato questo suo lato, l’età ha fatto il resto».
Veniva da un’Italia poi diventata Jugoslavia e Croazia: della gente dalmata che cosa aveva?
«Il fatto di non sottomettersi a certe autorità. Era di Ragusa, l’odierna Dubrovnik, un territorio libero, pieno di storie secolari e dove tante etnie vivevano in armonia».
Si definiva «sindaco» del «libero comune di Zara in esilio».
«Passò lì la gioventù. Quando tornò dalla prigionia di guerra, Zara non esisteva più: tutta bombardata. La famiglia era già a Trieste: lui non aveva vissuto l’esodo, ma a casa non era potuto tornare. Gli esuli di Zara avevano costituito un’associazione e lo scelsero come loro sindaco, perché lo vedevano istrionico ma anche diplomatico. Questa vicenda nemmeno esisteva nei libri di storia, oggi il Ministero della pubblica istruzione ha disposto che sia raccontata nei giusti termini».
Prima la battaglia di El Alamein, poi prigioniero per quattro anni degli Alleati: ne parlava?
«Solo in forma romanzata. Si era addormentato in una buca, al risveglio i neozelandesi lo portarono via. La prigionia non fu una passeggiata, ma gli permise di formarsi culturalmente. Divenne amico di Carlo Colombo, drammaturgo e gestore di teatri, tra cui il “Gerolamo” dove nel 1966 i miei genitori avrebbero tenuto la loro prima sfilata, intrattenendo gli spettatori con trovate sceniche e teatrali».
La cultura come rientra in quelle giornate?
«Da ragazzo, tra atletica e altro, saltava spesso la scuola. Una volta sua madre andò all’istituto di Trieste dove l’avevano iscritto. Chiese di Ottavio Missoni. La risposta fu: “Chi?”. Ecco, non l’avevano mai visto... Ridendo, papà ricordava che durante la prigionia aveva coltivato le due cose che preferiva fare: dormire e leggere. Colombo gli propose i classici greci e libri storici, che gli formarono una cultura umanistica: si definiva anarchico liberale, a carattere individuale».
L’avvio dell’azienda: pionierismo o azzardo?
«In ogni inizio ci sono pionierismo ed entusiasmo. Ma papà partiva dal successo delle tute. Portò l’attività a Gallarate, lui e Rosita puntarono sull’abbigliamento femminile».
Da che cosa è dipesa la svolta?
«Nel 1958 la Rinascente ordinò 500 chemisier a righe colorate. Così diventarono “i Missoni, quelli delle righe”. Divennero pionieri del prêt-à-porter italiano negli anni 60 quando la giornalista di moda Anna Piaggi li scoprì. Il grande salto fu la costruzione della fabbrica di Sumirago nel 1968: l’attività cresceva e il laboratorio di Gallarate era inadeguato. Scelsero un luogo dove avrebbero voluto avere anche una casa».
Ci fu la vicenda delle modelle di Palazzo Pitti e della biancheria da togliere.
«Anno 1966, nella Sala Bianca. Il problema fu che sotto i vestiti di lamé scuro si vedevano i reggiseni bianchi. Mamma disse di toglierli, ma con i riflettori e i flash le modelle vennero “radiografate”. I giornali titolarono allo scandalo».
Yves Saint Laurent, in compenso, lanciò il nude look.
«Però i miei non furono più invitati. Decisero allora di organizzare una sfilata “acquatica” alla piscina Solari di Milano. Cesare Rubini portò i suoi atleti pallanotisti per spingere le poltrone gonfiabili sulle quali galleggiavano le ragazze. Fu un evento trasversale, che coinvolse moda, sport, arte e design».
Diceva: per vestirsi male non serve seguire la moda, ma aiuta.
«La battuta era per le “vittime della moda”: se è di moda, lo metto anch’io. Così non funziona».
Aveva un colore preferito?
«Il viola. Sosteneva: se si guarda bene, c’è sempre, anche se non compare a prima vista».
Le righe Missoni sono come quelle delle zebre, una mai uguale alle altre?
«Vero. La produzione si è evoluta, anche all’insegna dell’imprevedibilità: un po’ come il jazz rispetto al resto della musica».
Perché lei ama le foto?
«Devo la passione a papà: aveva spesso in mano una macchina fotografica. Il regalo per la Prima comunione fu una Contina L, poi un giorno mi donò la sua Rolleiflex. La fotografia ha generato in me anche l’amore per l’astronomia».
Perché fotografa soprattutto la Luna?
«Perché è magica nei colori: in natura è grigio cenere, ma la vedi azzurrina, rosellina, giallina; quando ti svela i suoi colori in fase di stampa, si trasforma in un arcobaleno dalle infinite varianti. È diventata protagonista del mio statement d’artista».
Qual è il futuro del brand Missoni?
«L’attività continua. La tradizione del nostro stile si rinnova nel futuro attingendo al patrimonio infinito di Moda, Design e Arte conservato dall’Archivio Missoni: il passato è sempre una guida».
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