La Stampa, 10 febbraio 2025
Intervista a Rossana Campo
I romanzi di Rossana Campo hanno titoli bellissimi. Sono biglietti d’auguri, dediche alla vita. In principio erano le mutande, Mai sentita così bene, Il pieno di super, Così allegre senza nessun motivo.
Ha pubblicato 24 libri, quasi tutti romanzi, il primo nel 1992, a 29 anni, e l’ultimo, Libere e un po’ bastarde (Bompiani) il mese scorso. Sono in larga parte storie di amiche che si accompagnano nel tempo e lo fanno intorno a un tavolo, mentre cenano, pranzano, brindano, fumano e più di tutto chiacchierano, parlano, dicono, intenzionate con fermezza a godersi la vita con poco: i carboidrati, il vino, le amiche, l’amore.
In Libere e un po’ bastarde, ci sono Betti, sceneggiatrice che vive a Parigi, e le amiche che vanno a trovarla, quasi tutte di “età avanzata”, come direbbero i demografi: alcune invecchiano con allegria, altre con paura, alcune con inibizione, altre con avventura. Di libri sul desiderio che non invecchia con l’età ne escono tanti e sono perlopiù saggi rivendicativi, storie riscattanti. Campo non fa niente del genere. «La cosa che mi dicono di più le mie lettrici, e qualche volta anche i lettori, è che quando finiscono un mio romanzo attraversano un lutto, perché devono dire addio a un gruppo di amiche», dice a La Stampa, nella sua casa romana dove vive quando non è a Parigi, la città che ha scelto quando ha deciso di diventare una scrittrice, o a Genova, dove è nata e cresciuta, in una famiglia meridionale senza molti mezzi.
Campo, lei sembra la sola scrittrice italiana felice. Lo è?
«Se sono l’unica non lo so ma sì, sono felice»
E come fa?
«Quando arrivano i momenti difficili o tristi non li scaccio: me li godo, insieme alle parti più intrattabili di me. Pensiamo sempre che la parte migliore di noi sia quella adattata, che è importante, perché ci aiuta ad avere uno stipendio. Ma il nostro meglio sta nella disadattata, malvestita e fuori forma che abbiamo dentro: amarla ci dà potere».
Com’è fare il suo lavoro in Francia?
«Sai di vivere in un Paese dove dei libri contano ancora la struttura e lo stile e gli intellettuali hanno un peso. Quando Gisèle Peliquot, la donna addormentata e violentata per anni dal marito, ha detto che “la vergogna deve cambiare campo”, mi sono ricordata che la prima a dirlo era stata Virginie Despentes raccontando il suo stupro in Scopami. E c’è un processo per abusi a porte aperte in Triste tigre di Neige Sinno. Entrambe sono scrittrici francesi».
Se una cosa non viene raccontata è come se non fosse successa?
«Può darsi. Dare parole a una cosa crea una realtà o la rafforza, ma è anche vero che non nominare una cosa, non la fa sparire, anzi, la rende sotterranea, la fa incattivire finché esplode».
Scrive: «La letteratura è un secondo mondo che a volte compensa la povertà di senso e d’amore del primo».
«Penso che la letteratura sia una vita su cui possiamo riflettere, per entrare a fondo nella nostra esperienza, cosa che in una vita di pura azione non possiamo fare. Devo citare uno scrittore, ahimè, ed è Proust quando dice: la vera vita è quella scritta».
Perché dice ahimè?
«Perché mi sforzo di parlare solo di scrittrici: per secoli abbiamo parlato solo di scrittori, bisogna riequilibrare. Faccio laboratori di scrittura autobiografica da una decina d’anni, li chiamo “laboratori di femminile esorbitante” perché sono frequentati da donne e quindi per loro scelgo una bibliografia composta interamente da autrici. Nelle scuole di scrittura mi facevano notare che andavano inseriti anche i maschi, come se negassi che esistono scrittori validi. Il punto, invece, è quante scrittrici valide abbiamo ignorato e trascurato per centinaia di anni».
Lo scrittore Francesco Piccolo dice che il maschio progressista non esiste: è un involucro dentro cui si nasconde un troglodita. Conferma?
«No. Posto che da tempo preferisco relazionarmi con le donne a tutti i livelli, conosco bene Piccolo e tutti i difetti dei maschi di sinistra, avendone avuto uno per compagno, ma so che con loro ci sono termini di confronto».
Quel compagno era Nanni Balestrini, uno dei fondatori di Potere Operaio, insieme a Toni Negri, padre della regista Anna, che ha trasposto al cinema il suo primo clamoroso romanzo, In principio erano le mutande. Ottima triangolazione.
«Già».
Ricordi?
«Non voglio parlare del passato: è stato già detto tutto. Cito Gertrude Stein, mio idolo assoluto, che in Autobiografia di Alice Toklas, quando finiscono nel pantano e Alice dice che si sono perse ed è meglio tornare indietro, le risponde: “Indietro mai. Andiamo sempre avanti"».
Se avesse amiche peggiori farebbe libri meno belli?
«Meno belli e meno forti. Ho dedicato questo libro alle “sisteroutsiders”, perché sono una risorsa: le incontri, ci parli, ci passi del tempo e il cuore si alleggerisce. Sembra niente e invece è tutto. Certo, esiste l’analisi, ma a un analista non ci si affida così. Questo affidarsi e alleggerirsi è unico, l’ho visto non tra donne e uomini, non tra familiari, non tra amanti, ma solo tra amiche».
Anche quando invecchiano.
«Soprattutto allora. Non sarà un caso se in tutto il mondo ci sono amiche che vanno a vivere insieme gli ultimi anni, ora che nelle città i costi sono insostenibili e nessuno si cura dell’isolamento degli anziani. In Francia ci sono le case Baba Yaga, ospizi femministi».
Una volta mia madre mi ha detto di aver fatto un progetto simile con le sue amiche, e di aver provato a coinvolgere anche i mariti: nessuno di loro ne ha voluto sapere.
«Dica a sua madre e alle sue amiche di procedere lo stesso, tanto i maschi in media muoiono prima».
Giusto. A proposito di femminismo, perché nei suoi libri non viene mai nominato?
«Sono femminista sin da ragazzina, ma non ho mai voluto trasferire ideologie nei miei romanzi: lì racconto le mie storie. Certo, esercito delle scelte che non farei se non fossi femminista».
Per esempio il fatto che le protagoniste di Libere e un po’ bastarde siano tutte donne e non parlino mai di uomini?
«Quello non è un fatto femminista: è la mia biografia degli ultimi anni».
Il loro argomento centrale è godersi la vita.
«Perché è la loro preoccupazione centrale. Cos’altro siamo a fare al mondo? La voglia che abbiamo di prenderci la vita ha la forza e la vitalità di chi si è liberato da poco. Per millenni siamo state sottomesse quindi ora siamo affamate, curiose, felici di esplorare il sesso, l’identità, l’autonomia, il mistero, il bene e il male. Incontro spesso donne che davanti alla possibilità di amare un’altra donna, anche se sono eterosessuali, dicono: ma sì, proviamo. Non ho mai sentito un maschio eterosessuale fare altrettanto: di norma, la sola idea di baciare un altro maschio lo atterrisce».
Nel suo romanzo c’è una donna, Fede, che si smarrisce in una relazione violenta. Ed è la più autonoma e sicura del gruppo.
«Niente ci mette al riparo dalle relazioni sbagliate. A volte le andiamo a cercare, le ragioni sono tante, non voglio scomodare psicoanalisi e psicologia, ma spesso accade a chi ha sofferto sin dall’infanzia l’abbandono. Il modo per salvarsi non può però sempre essere la demonizzazione degli amori tossici, perché può innescare un meccanismo colpevolizzante. Dobbiamo, più semplicemente, volerci bene quando ci caschiamo, tenendo sempre a mente che la sottomissione le donne se la portano nella carne e se la trasmettono, perché sono state minacciate, picchiate, mandate in manicomio senza motivo fino a non molto tempo fa».
L’allegria delle donne è un tabù?
«Se non è un tabù, di certo si paga. Gli autori dei grandi romanzi e delle grandi opere liriche che hanno dato vita a eroine avidamente attaccate alla vita, se pure le hanno raccontate con passione, hanno finito sempre con il farle morire ammazzate o suicide. Anche se inconsciamente, le punivano. Non credo sia un caso che le scrittrici che hanno dato vita a personaggi altrettanto vitali e problematici, non li abbiano poi uccisi».
C’è davvero bellezza nella solitudine?
«Non in quella sociale, che è dovuta all’aver improntato tutto, anche l’attività culturale, al consumo, ma in quella privata sì. Anni fa mi ritrovai da sola a capodanno e mi afflissi pensando che era una cosa terribile e umiliante. Poi smisi di giudicarmi, mi sedetti e rimasi in silenzio, finché non sentii le sirene delle navi del porto di Genova che salutavano il nuovo anno. Mi affacciai alla finestra, vidi il cielo e realizzai che era un momento stupendo, tutto mio. Stare da sole si può e può essere perfetto, ma ci hanno sempre raccontato che è spaventoso, da fallite».
Cos’è la libertà?
«Chiedersi sempre: libertà per chi?». —