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 2025  febbraio 10 Lunedì calendario

Intervista a John Bolton

John Bolton è un veterano di Washington, ha lavorato in tutte le Amministrazioni repubblicane dai tempi di Ronald Reagan. Con George Bush Jr. fu ambasciatore all’Onu e di Donald Trump è stato per 18 mesi consigliere per la Sicurezza nazionale. Nel 2020 ha pubblicato un libro, The Room Where It Happened, critico nei confronti di alcune decisioni assunte dal tycoon. Donald Trump l’ha ripagato togliendogli – non appena re-insediatosi alla Casa Bianca – le misure di sicurezza. Stesso provvedimento riservato ad altri ex, come Mike Pompeo e Marc Esper, segretario di Stato e capo del Pentagono. Alla fine di una settimana dominata dall’iniziativa di Trump sul controllo di Gaza, John Bolton ha letto le carte dell’Amministrazione sul Medio Oriente in questo colloquio con La Stampa. E sulla sua sicurezza dice: «Il livello della minaccia non è cambiato, resta molto concreto».
Perché allora Trump le ha tolto le protezioni?
«È una vendetta contro tutti noi, Esper, Pompeo, io, Brian Hook. Prendo ogni precauzione possibile e ricorro alla sicurezza privata. Ma così facendo Trump manda un doppio brutto segnale: agli iraniani e ai suoi collaboratori che potrebbero finire in pericolo per qualsiasi cosa in futuro».
Trump ha detto di voler prendere il controllo di Gaza parlando di ricollocazione e quindi di ricostruzione della Striscia. Il mondo arabo ha alzato le barricate ma Trump è abituato a pensare fuori dagli schemi. Questo nuovo paradigma può funzionare?
«Le questioni sono due. La prima riguarda il ruolo degli Stati Uniti a Gaza. Se pensiamo che Gaza diventi una riviera orientale del Mediterraneo, non accadrà. Trump ha anche detto di essere pronto a usare i soldati, il giorno dopo ha cambiato registro. Nessuno investirà mai in una zona dove gli operai sono esposti ad attacchi terroristici. Gaza è un lembo di terra, una strada che connette l’Europa con l’Egitto, finita nel 1948 in parte sotto controllo del Cairo e occupata da Israele nel 1967. Non è un posto fiorente per l’economia per i palestinesi. E questo porta alla seconda questione».
Ovvero?
«Europa, Stati Uniti e mondo arabo devono chiedersi cosa fare da un punto di vista umanitario con il popolo palestinese».
Quale strada?
«I profughi, secondo la dottrina che l’Onu segue dal 1945, vengono ricollocati o rimpatriati. Le persone non possono essere spostate forzatamente. Dubito che a Gaza venga costruito un campo profughi permanente di alto livello, si tornerebbe allo scenario ante 7 ottobre».
Chi prende allora i gazawi?
«Gli Stati arabi non amano parlare di questo. L’Egitto, ad esempio, vede molti gazawi come sostenitori di Hamas, ritenuta una sussidiaria dei Fratelli Musulmani. Molte persone hanno però già lasciato Gaza comprando la loro via di fuga, corrompendo qualcuno, e sono di fatto reinsediati. Ovviamente non è il grosso della popolazione. C’è ancora molto da fare, ma questo dimostra che la regione ha capacità di assorbimento. Serviranno soldi. Ed è qui che devono entrare in gioco i Paesi del Golfo. Non sarà facile, ma l’idea che si volti pagina pensando di ritornare a prima del 7 ottobre non funziona».
C’è un futuro per la visione dei due Stati?
«Non ci sarà mai. Ritengo fosse morta ben prima dell’attentato di Hamas del 2023. Ora è svanita qualsiasi fiducia. Una parte fondamentale di questo approccio era l’idea che i palestinesi, compresi quelli di Gaza, potessero lavorare e spostarsi in Israele. Non vedo come possa funzionare».
Trump spinge per la normalizzazione dei rapporti fra Israele e Arabia Saudita. Chance di successo?
«Non credo che l’interesse alla normalizzazione sia diminuito a Riad. Ci sono interessi confluenti fra il Golfo arabo e Israele, oggi più che in passato. Basti pensare alla percezione che per tutti la vera minaccia è l’Iran».
Quanto pesa lo status dei palestinesi in questo percorso verso la normalizzazione?
«È un tema critico. Per tanto tempo la posizione dei sauditi è stata di sostegno ai due Stati. Moltissime persone nella regione riconoscono però che l’idea di uno Stato fra Gaza e la West Bank è impraticabile. Anche se rimangiarsi pubblicamente l’idea sostenuta per tanto tempo non è facile. Intanto che si dialoga su come rafforzare i legami fra sunniti e Israele, serve chiedersi cosa fare con Gaza. In modo realistico. Perché tornare alla vita lì non è possibile, il ricollocamento – temporaneo ma che può diventare permanente – diventa sempre più importante. Quale futuro altrimenti per la gente, quale lavoro, che destino hanno i bambini. Non è umanitario tenerle lì».
Trump ha firmato un ordine esecutivo per ripristinare la massima pressione sull’Iran per portare a zero l’export di greggio. Dall’altra ha aperto a un dialogo. Sembra un approccio fra bastone e carota. Quale sarà la policy di Trump verso la Repubblica islamica?
«Donald Trump non ha una politica coerente in niente. Il presidente pensa di poter fare accordi con chiunque su qualsiasi cosa. Se torniamo al 2018, il periodo poco prima che uscissimo dall’accordo sul nucleare, (il Jcpoa, Ndr), francesi, tedeschi e britannici vennero da noi e ci dissero: “Capiamo le vostre difficoltà ma vi proponiamo di lavorare alle cose che vi preoccupano, come il sostegno di Teheran al terrorismo e lo sviluppo missilistico. Perché non restate nell’intesa e proviamo a espandere il perimetro dell’accordo?”. Trump disse che gli sarebbe piaciuto negoziare un’intesa più ampia, ma per fare questo sarebbe uscito dal Jcpoa. E così ha fatto. Onestamente se non riesci a portare gli iraniani a mantenere quello che avevano promesso sul fronte del nucleare, chi crede che Teheran manterrebbe gli impegni sul terrorismo o sui missili balistici? Non si riuscirà a negoziare un accordo più ampio».
Da qui la massima pressione? Cos’è in concreto?
«Cosa s’intende per massima pressione è l’interrogativo. Non può essere quella di azzerare l’export di greggio. In passato si era riusciti a ridurlo a 200 mila barili al giorno, quindi quasi nulla. Ma già alla fine della prima Amministrazione Trump la quota stava risalendo poiché Teheran aveva trovato il mondo di aggirare le sanzioni. La massima pressione dovrebbe significare cambio di regime. Trump dice che vuole un bellissimo Paese senza armi atomiche? Bene, c’è solo un modo, sbarazzarsi degli ayatollah. È preparato Trump a seguire questo schema? Non mi sembra chiaro». —
 
 
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