Corriere della Sera, 10 febbraio 2025
Negli ultimi anni la guerra è di nuovo al centro della scena. Per capire i motivi del suo eterno ritorno basta leggere la grande letteratura, dall’Iliade a Roth. Senza perdere la speranza di arginarla e superarla
L’umanità ha consegnato un’altra volta il proprio cuore alla guerra. Siamo costretti a constatarlo in questo terzo decennio del XXI secolo. Eravamo certi che il Novecento ci avesse impartito una lezione memorabile, ma abbiamo già dimenticato tutto. Finita la Guerra fredda, caduto il mondo diviso in due blocchi, ci siamo illusi (come si disse allora con una locuzione di dubbio gusto) che l’umanità stesse entrando nell’Età dell’Acquario – un’epoca di pacificazione e concordia universale –, che addirittura la Storia intesa come atrocità e prevaricazione («uno scandalo che dura da diecimila anni», scriveva Elsa Morante. L’incubo da cui Stephen Dedalus non riusciva a risvegliarsi) fosse finita. Non ho idea come lo «sciopero degli eventi» (così, invece, venne da alcuni battezzato, con una giusta punta d’ironia, il periodo più illusorio degli anni Novanta) potesse averci persuaso diquesto memorabile cambiamento. La guerra civile nella ex Jugoslavia e un numero impressionante di conflitti locali sarebbero stati già allora sufficienti a confermare per l’umanità la persistenza di un cuore barbarico, assetato di sangue, “rapido alla guerra”. Ancora bombardamenti, devastazioni, saccheggi, pulizie etniche, genocidi, occupazioni, stragi di soldati, civili, bambini… Oggi, che la “guerra mondiale a pezzi” rischia di rivelarsi il puzzle di un’apocalisse in via di svolgimento, torniamo a ragionare con angoscia sull’evidenza di essere ancora incastrati nell’Età di Marte. I giornali faticano a salvare l’informazione dalla propaganda. Le trasmissioni televisive si riempiono di esperti. La geopolitica vorrebbe diventare la griglia interpretativa per capire che cosa sta accadendo. Ma la geopolitica, da sola, non basta. Sarebbe come limitarsi alla meteorologia per comprendere i cambiamenti climatici. Per questo motivo gli autori e le autrici di questa antologia sono preziosi, ancora più oggi che abbiamo la pretesa di spiegare tutto in termini di congiunture storiche, disequilibri economici, indici demografici, confini territoriali. La guerra è certamente anche il frutto avvelenato di una contingenza, di una serie più o meno disordinata di nessi causali. Ma, grattando la superficie degli eventi, dovremmo intenderla anche come qualcosa di più profondo e oscuro: una malattia della specie. Anzi, la più terribile delle nostre patologie. Perché non siamo ancora guariti?
InNon ricominciamo la guerra di Troi a,uno scritto presente in questa antologia, Simone Weil mette in rilievo un’evidenza al tempo stesso elementare e sconvolgente. Osservate a distanza, con il senno del poi, a fronte dei disastri e della sofferenza che hanno provocato, tutte le guerre nascono da motivi assolutamente futili. Il rapimento di Elena scatena una serie di scontri e atrocità sempre più sfrenate, sganciate via via dalla loro causa scatenante. Tanto che, scrive sempre Weil, a un certo punto quella causa più che un fantasma (il fantasma di Elena tra le mura di Troia) diventa un dato di irrealtà, un episodio dimenticato dagli stessi belligeranti, i quali continuano a distruggersi a vicenda senza più ricordare perché. E del resto lo stesso scontro con cui si apre L’ Iliade – la lite tra Agamennone e Achille per il possesso di Criseide e Briseide – è più futile di una rissa da bar, come fa notare con macabro compiacimento il professor Silk Coleman al principio de La macchia umana di Philip Roth.
Se dalla guerra con cui si apre la storia della letteratura occidentale ci spostiamo al primo omicidio – se dalla violenza collettiva ci muoviamo, vale a dire, su quella individuale, dall’ Iliade al mito di Caino e Abele descritto nella Genesi, il nocciolo della questione rimane tragicamente identico. Così come achei e troiani si scannano per qualcosa che non ha lontanamente a che fare con la sopravvivenza dei rispettivi popoli, Caino non uccide Abele per una questione di vita o di morte. A muoverlo non è la necessità, ma l’orgoglio ferito. Dio, senza ragione apparente, ha preferito ai doni di Caino quelli di suo fratello, gettando il primo nella frustrazione e nel risentimento. Sempre Weil identifica nella dismisura delle ideologie (compresa la democrazia quando diventa un feticcio), nella mostruosità dei sentimenti assoluti una delle micce da cui divampa con più frequenza la follia collettiva della guerra. Elsa Morante, che di Weil era una grande ammiratrice, inPro e contro la bomba atomica (presente in questo libro) indica nell’astrazione la malattia che rischia, a ogni generazione, di farci ripiombare nella barbarie. E che cos’è l’astrazione, se non il dissennato scassinamento del concetto (e del congegno) di limite? Il limite è umano, concreto, naturale. La dismisuraè un fantasma, un’astrazione, un’aberrazione mentale in nome della quale si può sacrificare ogni cosa.
C’è una battuta, contenuta in una scena di Patton, generale d’acciaiodiretto da Franklin J. Schaffner, che risulta piuttosto emblematica nell’economia del discorso che stiamo facendo. Patton sta ispezionando il campo dopo una battaglia. Intorno a lui ci sono devastazione, fiamme, carri armati distrutti, cadaveri, soldati agonizzanti. A un certo punto il generale solleva tra le braccia un suo ufficiale morente. Lo bacia, si guarda intorno e dice: «come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita!». A ricordare questo formidabile frammento cinematografico è James Hillman in uno dei suoi ultimi lavori, Un terribile amore per la guerra. In quanto psicologo, qui Hillman sembrerebbe poter evocare il Freud di Al di là del principio del piacere, dove il padre della psicoanalisi affrontava con audacia la “pulsione di morte” che muoverebbe i nostri passi, in continua antitesi con lo slancio vitale da cui pure siamo animati.
Ma Hillman era uno junghiano, dunque nel suo caso è forse meglioparlare di grandi archetipi, Eros e Thanatos. La guerra è un mito che ci sovrasta, che contribuisce a rappresentarci, che ci possiede, e i miti («l’averlo riconosciuto è la più grande di tutte le conquiste della mente greca») sono la normazione dell’irragionevole. Così come a volte agiamo sotto il segno di Venere, in altrettanti casi è Marte a guidare le nostre azioni. È questo dio che avanza armato di lancia e scudo a possederci.
Il progresso dovrebbe essere l’emancipazione da questa violenza originaria. Ed in effetti i nostri progressi nel campo filosofico, scientifico, tecnico, così come l’evoluzione dei nostri sistemi sociali, giuridici, economici, hanno reso via via la violenza sempre meno una necessità. Tanto che oggi viviamo in un mondo in cui la violenza non è più indispensabile alla sopravvivenza della specie. Ma il progresso tecnico, scientifico, filosofico, giuridico, economico e politico viaggia in modo infinitamente più veloce rispetto ai cambiamenti nella nostra memoria genetica, nell’antropologia, nella biologia. In una parte della nostra mente, nel nostro cervello, e in una parte nemmeno trascurabile – chelo vogliamo o meno – siamo ancora quelle creature spaventate e ipersensibili, immerse nella notte dei tempi, che si vedono costrette a usare la violenza per scampare alla morte. È questa, direbbe Jung, la nostra ombra. (O il nostro fantasma, la nostra astrazione). La portiamo sempre con noi. La cosa peggiore che può capitarci è fingere che l’ombra non esista, arrivare a credere di non vederla per pacificarsi la coscienza. Certo, possiamo dimenticare l’ombra. Ma tutto ciò che rimuoviamo promette di tornare in forme sempre più terrificanti a fare danni (a seminare morte e distruzione in questo caso) di cui torniamo consapevoli solo quando è tardi, cioè al momento di contemplare un cumulo concreto di rovine. Dare un nome all’ombra che siamo, accettarla, farci i conti, è l’unica speranza per provare a domarla, a convogliarne la sua innegabile energia verso qualcosa di meno dannoso possibile.
Tra gli autori qui antologizzati c’è anche Nelson Mandela. Dopo la finedell’apartheid, Mandela e i suoi istituirono in Sudafrica “La Commissione per la verità e la riconciliazione”. Si trattava di un tribunale straordinario il cui scopo era raccogliere le testimonianze di oppressi e oppressori, vittime e carnefici, per consentire alle parti di incontrarsi, parlarsi, confrontarsi. Questo serviva innanzitutto per portare gli uni a riconoscere l’esistenza degli altri trasformando i fantasmi in persone, l’astrazione in realtà e, quindi, in un momento successivo, per chiedere e (nel caso) ottenere il perdono. Si cercò di avviare il Paese verso un vero processo di pacificazione. Fu un percorso lungo, difficile, per certi versi “impossibile”, un esperimento di giustizia riparativa che tuttavia, alla fine, diede il risultato eccezionale di non far precipitare il Sudafrica verso un’altrimenti non improbabile guerra civile.
«Sapevo che l’oppressore è schiavo quanto l’oppresso», scrive Mandela, «perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della propria umanità. Da quando sono uscito dal carcere è stata questa la mia missione: affrancare gli oppressi e gli oppressori». Con quell’esperimento si cercò, insomma, non solo di emancipare le vittime da un più che comprensibile risentimento, ma gli oppressori dal proprio stesso odio. Si cercò di “spossessarli”, di “liberarli” dai demoni.
Tra le istituzioni giuridiche, il processo è quella che possiede più elementi rituali, dall’uso dei costumi a tutta una serie di formalità cerimoniali, dall’allestimento dello spazio fisico alla determinazione dei ruoli degli attori “in gioco”. Secondo alcuni studiosi, dalla matrice delle cerimonie religiose si biforcano due tipi di pratiche umane, diverse e speculari, fondamentali entrambe per la tenuta della civitas: il processo da una parte e il teatro dall’altra. Quest’ultimo, nel mondo greco antico, svolgeva al suo momento apicale una formidabile funzione catartica. Gli esperimenti più audaci e riusciti di giustizia riparativa come quello descritto sono sì istituzioni giuridiche, ma possono svolgere al tempo stesso una funzione catartica, liberatoria. Non ci riflettiamo mai abbastanza.
L’umanità sta consegnando di nuovo il proprio cuore alla guerra. Saranno necessarie le opere di mediazione, le strategie politiche e quelle militari, la diplomazia, le pratiche di dissuasione e quelle di deterrenza, lo scambio di ostaggi, le conferenze internazionali, l’accortezza dei militari, la saggezza dei capi di stato, l’intelligenza della società civile, persino la geopolitica. Ma tutto questo servirà nel migliore dei casi a circoscrivere l’orrore, a rimandare il disastro definitivo, non a guarire il nostro cuore. Il mondo laico non ha ancora elaborato delle forme rituali capaci di liberarci ciclicamente dalle ombre che ci opprimono. Servirà anche questo, l’elaborazione di una pratica di tipo nuovo. Avremo bisogno di un’azione di spossessamento, di un esorcismo, di un rito collettivo di liberazione e guarigione, per evitare di far finire anzitempo l’avventura di noi umani sulla terra.