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 2025  febbraio 10 Lunedì calendario

Andrea Camilleri sottopose al giovane Manzini la prima storia di Montalbano: che ne pensi?

Caro Andrea, non avevo trent’anni e tu non ne avevi settanta quando un pomeriggio nel tuo salone con il fornelletto a spirito che bolliva foglie profumate per ammazzare il fumo delle Multifilter mi dicesti: ho scritto un libro. Un altro. Questo ha un poliziotto come protagonista, che si chiama come lo scrittore di Barcellona, però l’ho italianizzato. Chi, Montalbán? Sì. Si chiama Montalbano. Salvo. È un emigrante? ti avevo chiesto, perché era di quello che stavamo parlando, di Emigranti di Sławomir Mrozek, avevamo fatto lo spettacolo, ti ricordi? Nel teatro che non esisteva e che tu ci hai fatto costruire a me e Tullio. E da quando gli attori si costruiscono i teatri da soli? Da quando un teatro non ce l’hanno, ci avevi risposto. Non capisco, Andrea, Montalbano è spagnolo? Bì che camurria, hai detto. Ho italianizzato un nome, ti rincoglionisti in un vidiri e svidiri? Poi sei andato nella tua stanzetta, che a malapena ci entrava il tavolino con la macchina da scrivere.
Ne sei uscito poco dopo con un blocco di fogli A4 in mano e mi hai detto: Tiè, leggilo. Ma è tipo Maigret? Camurria, hai detto, puoi leggere senza farmi girare i cabasisi… Gnorsì. Ma perché io? Che manco ho 30 anni? Perché non uno dei tuoi amici di ben altra levatura culturale? Sono morti, mi hai risposto. Ma a chi lo dai? A quella signora che incontrasti quando andammo a fare Majakovskij a Palermo? Camurria… a saperlo che era un terzo grado evitavo. Vuoi leggere sì o no? E io ho afferrato il plico. Sono tante pagine. Ti scantano? mi hai detto. No, mi spaventa che se Rosetta mi trova qui a ora di cena mi prende a calci in culo fino a viale Mazzini. Tu leggi, che a ora di cena hai bello e finito. Una sfida, Andrea. Era una sfida che avevi lanciato. Ma non a me come lettore, a te come scrittore. Se questo scimunito lo finisce prima di cena il libro camina, avevi pensato, se non ce la fa devo rivederlo. E così, seduto sulla poltrona vicino alla stufa di mattoni con sopra il piccolo bollitore e le foglie che ci galleggiavano dentro, ho cominciato. «Lume d’alba non filtrava nel cortiglio della “Splendor”» che a me m’era parso un verso, non l’incipit di un romanzo.
Non mi ricordo dove te n’eri andato, Andrea, né se fuori c’era luce o era già buio, non ricordo se avevi cambiato le foglie e l’acqua nella cuccuma sopra il fornelletto a spirito. Se ti eri bevuto una birra o eri andato a scrivere qualcosa all’Olivetti. O avevi già l’Ibm mezza elettrica? Forse avevi telefonato a qualcuno, o eri andato in cucina a parlare con Rosetta. Invece mi ricordo dove ero io. A Vigàta. Che non esisteva, ma io l’avevo capito che era un po’ Porto Empedocle e quelle erano le tue strade, e il palazzo del Comune, forse? Quello con le quattro colonne che tu mi avevi raccontato che te ne stavi lì davanti, ragazzo, a guardarlo con la voglia di scappare lontano, a Roma, a fare il teatro, e ti ripromettevi che saresti tornato a Porto Empedocle solo quando ti saresti dimenticato quante colonne c’erano davanti al palazzo del Comune. Ero con Luparello trovato in mezzo alla monnezza dai netturbini, con Fazio, Augello, ero con Livia a Genova, e Montelusa e Gallo e Galluzzo. E Salvo. Coi baffi e i capelli spettinati, omu di liggi nella Sicilia che t’eri inventato e che era più vera di quella vera. Non mi ricordo se mi guardavi mentre leggevo o se ti eri messo pure tu con un libro sul divanetto. Ce l’ho ancora una foto dove io e te stiamo seduti su quel divanetto a leggere chissà che libro. Teatro, sicuro. Tu fumi, io guardo la pagina e sembra che sto aspettando una tua decisione. Non mi ricordo se mi hai lasciato solo nella stanza, Andrea, non mi ricordo niente. Fino a quando Salvo, già lo chiamavo Salvo, deve affrontare Anna che aveva visto Ingrid seminuda sul letto e gli dice: «E tu saresti un uomo onesto?». «No, non lo sono. Ma non per quello che pensi tu». E sotto c’era scritto FINE.
Così ho alzato lo sguardo e tu eri lì, vicino alla finestra. E mi guardavi. Tenevi in mano un bicchiere di birra e il fumo della sigaretta ti tagliava via mezza faccia. Allora? Che mi cunti? E che ti dovevo dire, Andrea? Quei fogli A4 pesavano sulle ginocchia come piombo. Mica lo sapevo che stavo sorreggendo Enola Gay, mi sarei fatto scattare una fotografia all’istante. Sarei passato alla storia. Era il primo libro di questo tizio, di questo commissario con il cognome rubato a uno scrittore che mi avevi insegnato ad amare. Un poliziotto che… «I pensieri che sono venuti a te, omu di liggi, sono precisi intifichi a quelli che sono venuti a mia, omu di delinquenza. E tu volevi solo vedere se appattavano, eh, Salvù?». Io la tua lingua la capivo, perché con quella lingua mi parlavi, Andrea, addrumati una sigaretta magari tu, Anto’, così mi cunti. E che ti dovevo dire? Mi dovevo ripigliare. La sigaretta me la sono addrumata. Non la Multifilter, io fumavo le Camel. Ti dissi che secondo me questo libro era una rivoluzione, e che tu l’avevi portata a termine usando il racconto più classico, usando il genere che gli schizzinosi linneiani consideravano la serie B della letteratura. L’alto e il basso che si confondono, che fanno le capriole come il tuo libro, Andrea, che fa ridere, e fa pensare, e che vorresti continuare a leggere fino a perdere il fiato e i denti.
Andrea, ma questa parlata la gente la capirà? Tu avevi riso, ti ricordi? I siciliani la capiscono, tanto chi lo deve leggere ’sto Montalbano? Anto’, cuntami. E che ti cunto? Maigret, Holmes, Poirot, Montale, Carvalho, stavano tutti dentro la stanza, Andrea, te lo dissi, e ti dissi pure che stavano dando il benvenuto a questo uomo coi baffi che, me l’avevi detto tu, ti somigliava tanticchia a Pietro Germi nel pasticciaccio. Quello di Gadda, il film, e pure il libro era argomento di quella chiacchierata, ti ricordi? Io così me l’ero visto Montalbano, anche perché Pietro Germi un po’ mi ricordava mio padre. Se Salvo somiglia un po’ a tuo padre, mi hai detto, sta a dire che ti è familiare. E questo è bono assai.
Allora ti è piaciuto? E ancora sorridevi con gli occhi dello stregatto o come diavolo si chiamava quello di Carroll, con la Multifilter appesa. Mi è piaciuto, mentre la cenere della tua sigaretta cadeva sul bracciolo della sedia e la spegnevi fumata a metà nel posacenere. Ma tu lo sapevi, Andrea, perché il manoscritto non aveva una cancellatura. L’avevi già ribattuto in bella copia. Nonsi, mi hai detto. Non c’è correzione perché non c’è. Cioè tu avevi scritto il libro dritto per dritto, perché sapevi cosa stavi scrivendo, dove andavano personaggi mai sentiti prima, dove andava a finire l’indagine, chi era chi, chi era il colpevole, la falsa pista, le donne le armi e gli amori. Lo sapevi già, Andrea. E mi guardavi dietro le lenti con gli occhi che ridevano mentre la bocca che stringeva la sigaretta restava seria. Hai visto, Anto’? Manco è ora di cena.
E lo sai che c’è scritto sulla mia copia quando l’hai stampato? Ad Antonio, con autentico affetto. Andrea. Sembra una dedica fatta di corsa. Ma tu le parole le hai sempre pesate, Andrea. Nei libri come nella vita. E dentro quell’autentico c’era tutta la nostra amicizia.
Andrea, questa lettera serviva solo a dirti grazie. Ora e per sempre