Corriere della Sera, 10 febbraio 2025
L a città in fiamme, la fabbrica distrutta, la fuga. «Le macerie di quella fabbrica sono le macerie delle nostre vite»
L a città in fiamme, la fabbrica distrutta, la fuga. «Le macerie di quella fabbrica sono le macerie delle nostre vite».
L’autunno del 1943 cambiò la sua esistenza e quella di decine di migliaia di italiani costretti a lasciare la loro terra per via della guerra persa. Franco Luxardo, nato e cresciuto a Zara quando il capoluogo della Dalmazia era tricolore, è l’ultimo esule (con la sorella Andina) della celebre famiglia d’imprenditori che su quella sponda dell’Adriatico aveva messo profonde radici. Fondatori della fabbrica del Maraschino che si ergeva bella e maestosa sulla riva del Barcagno, i Luxardo hanno pagato pesantemente la fase finale del conflitto. Le bombe angloamericane piovute dal cielo devastarono stabilimenti e abitazioni, il resto lo fecero da terra le truppe di Tito. Chi riuscì scappò, gli altri furono perseguitati. E per molti, fra cui i suoi zii Pietro, Nicolò e Bianca, fu la fine. I primi due vennero fucilati dall’Ozna che era la polizia politica di Tito, come confermano alcuni documenti scoperti di recente da un professore croato, mentre le sorti della zia restano ignote.
Ottantanove anni portati con grinta, dal 2007 presidente della Società dalmata di storia patria, a lungo sindaco del «libero Comune di Zara in esilio» e pure ex nazionale di scherma, l’ultimo dei Luxardo di Zara vive a Padova e lavora a Torreglia, il paesino nel quale la fabbrica di liquori è risorta ai piedi dei Colli Euganei.
Lo incontriamo in questo suo mondo fatto di alambicchi, tini e distillati dove tutto sa di tradizione, di amarene e di patria perduta.
Dottor Luxardo, Zara è lontana, cos’è rimasto di voi laggiù?
«Una tomba di famiglia, dove sono sepolti tutti i Luxardo dal 1946 in poi e sono ricordati sul marmo quelli morti altrove. Ci torno mediamente ogni due anni ma di italiani ne sono rimasti pochissimi».
Come viene accolto?
«Dalla popolazione e dalle istituzioni culturali, bene, dai politici un po’ meno, anzi, con freddezza. È una città nuova, croata, per molti aspetti senza una storia. Ha avuto uno sviluppo incredibile, da 25 a 80 mila abitanti in 80 anni, molti arrivati dall’entroterra. Nel 1953 ha chiuso l’ultima scuola di lingua italiana ma all’Università esiste comunque un dipartimento di italianistica che ha 4-500 allievi».
E la vecchia fabbrica?
«La struttura, all’epoca confiscata, è stata poi recuperata e ora ci hanno fatto un grand hotel che sarà gestito dalla catena americana Hyatt e verrà inaugurato a breve... andrò alla cerimonia e a rivedere la mia stanza con la finestra sul mare. Ci sono ancora le mura esterne di casa Luxardo».
Da Zara ai Colli Euganei, come andò?
«L’unico superstite dei Luxardo della sua generazione fu mio padre, sfuggito a una condanna a 10 anni di lavori forzati del Tribunale di Zara. Nel 1946 eravamo sfollati al Lido di Venezia e lui si ricordò di un professore dell’Università di Firenze, Alessandro Morettini, che aveva fatto degli studi sulle marasche dalmate (la materia prima della loro produzione, una sorta di ciliegia acida, ndr) ed era rientrato portando con sé alcune piantine. Lo convinse a studiare un luogo ideale dove far ripartire le colture. Ne individuò tre: la Carnia che però era troppo vicina al confine, la Val d’Illasi, sopra Verona, e i Colli Euganei. L’ambiente più adatto era questo e così comprò qui tre ettari di terra. Non c’era nulla, mancavano strade asfaltate, acqua, elettricità e le facce che giravano non erano tranquillizzanti».
Che facce giravano?
«Nel dopoguerra questa era terra di disertori, ex partigiani, sbandati. Mio padre dormiva in fabbrica con una pistola sotto il cuscino. Ricominciò con sei dipendenti, un mezzadro della zona, un fuochista, due donne… Persone di grande fedeltà. C’era Elisa Perlotti, per esempio, che era con noi in Dalmazia e appena ha potuto ci ha raggiunto a Torreglia dicendo no alla nuova fabbrica jugoslava riattivata dallo Stato imitando i nostri prodotti. Altro fedelissimo fu Carlo Bianchi, il capofabbrica di Zara. Nei giorni drammatici dell’occupazione mio zio Pietro gli disse: Carlo, questo è il libro delle ricette, se io non tornerò portalo tu in Italia. Zio Pietro venne fucilato e un anno dopo Carlo spuntò a Padova con il libro, importantissimo, in mano. Mio padre pianse…».
Pausa. Luxardo non ama farsi cogliere col groppo in gola ma ci sono fatti di quegli anni che gli inumidiscono gli occhi al solo pensiero. Come le urla notturne dei due cuginetti tormentati dagli incubi dei bombardamenti. «In quel periodo eravamo a Fiumicello e loro erano appena rientrati da Zara…». Altra pausa.
Cosa sono per lei l’Italia, il Veneto, Venezia?
«L’Italia è la mia patria, ci ho messo 50 anni a farmi scrivere sui documenti che sono nato qui e non in Jugoslavia o Croazia, ogni volta dovevo chiederlo al Prefetto. Venezia è la mamma della Dalmazia, la capitale della vecchia patria. Non scordiamoci che Zara è stata per diversi secoli veneziana. Il linguista Folena diceva che c’è il veneziano e poi c’è il veneziano “de là da mar”».
Presidente della società dalmata, sindaco del libero Comune, decenni di battaglie. Perché?
«Perché non si dimentichi che al confine orientale dell’Italia c’è stato un esodo di circa 300 mila persone e migliaia di morti, nelle foibe, nei campi di prigionia jugoslavi... Il Giorno del Ricordo serve a questo».
Una memoria tormentata. Ha visto cosa è successo l’altro ieri alla foiba di Basovizza? «Trieste è nostra» hanno scritto in sloveno.
«I soliti idioti che non si smentiscono mai. Ogni anno arriva puntualmente chi oltraggia e vandalizza. Il Giorno del Ricordo esiste dal 2004... solo dal 2004. Per lungo tempo il governo italiano non ha voluto che si parlasse di crimini commessi da un regime comunista e ha cercato di valorizzare la figura di Tito».
Lei cosa pensa di Tito?
Missoni e i documenti
Con Ottavio siamo stati testimoni della Memoria. Ci ho messo 50 anni a farmi scrivere sui documenti che sono nato in Italia e non in Jugoslavia o in Croazia
«Per me è stato un assassino, un dittatore comunista molto sopravvalutato dall’Occidente».
Siete scappati dal suo regime. Com’è stato l’impatto da queste parti? Nicolò Luxardo, cofondatore della nuova fabbrica, ha scritto che all’inizio la gente era divisa: «Ci definivano sbrigativamente fascisti per il fatto di essere scampati al terrore del compagno Tito».
«Il clima non era dei migliori e noi non eravamo fascisti, lo testimonia la nostra storia».
La Luxardo aveva oltre 200 dipendenti, è ripartita da zero e oggi ne ha 60, fattura 45 milioni di euro e vende in oltre 100 Paesi. Due secoli di storia e di tenace proprietà familiare. Mai pensato di aprire il capitale a soci esterni? Piazza Affari?
«Piazza Affari!? Per carità, siamo già tanti noi», sorride.
E mentre lo dice spunta un incravattato Piero Luxardo, settantaduenne presidente della società e docente di letteratura italiana contemporanea all’Università di Padova, uno dei sette parenti presenti in azienda: «Non se ne parla proprio di Borsa», e indica la foto che ricorda l’appartenza dei Luxardo all’associazione dei «Les Henokiens» che riunisce a livello mondiale le aziende(una cinquantina) con almeno 200 anni di gestione da parte dei discendenti dei fondatori. Un club dove intendono rimanere.
Momenti critici?
«C’è stato un brutto periodo negli anni Settanta per il venir meno di alcuni mercati esteri. L’Italia era anche sconvolta dal terrorismo e a Padova avevamo Toni Negri...».
Toni Negri e Franco Freda...
«Sì certo… C’erano scontri di piazza, da una parte i neofascisti di Freda, dall’altra quelli di Potere operaio con Toni Negri. Intelligentissimo, sia chiaro, ma si credeva Dio in terra. Allora abitavo a Padova con moglie e figli, per sicurezza mi sono trasferito sui colli».
Fra gli esuli c’era il suo amico Ottavio Missoni. Come lo ricorda?
«Come un grande testimone dell’esodo. Io ero il suo vice quando lui era sindaco del libero Comune fino al 2007. Arrivò a Zara da Ragusa (Dubrovnik in croato, ndr) da bambino».
Perché questa prima pagina incorniciata su Gabriele D’Annunzio?
«La sua famiglia aveva lavorato con i miei antenati. D’Annunzio era stato il Comandante di Fiume e aveva riallacciato i rapporti con noi. Ci dedicò questo verso: “Ecco la malinconia di Zara, chiusa in una bottiglia di Maraschino ed il liquor cupo che alla mensa di fiume chiamavo Sangue Morlacco”».
La prossima battaglia di Franco Luxardo?
«C’è un sospeso con l’Italia: la medaglia d’oro al valor militare, al gonfalone della città di Zara italiana. Era stata concessa dal presidente Ciampi con motu proprio nel settembre 2004 ma non è mai stata ufficialmente consegnata. La cerimonia doveva essere il 19 novembre di quell’anno ed è saltata. Abbiamo chiesto spiegazioni agli staff di Napolitano, che io stimavo perché ha avuto il coraggio di andare controcorrente sulle vicende ungheresi, e a Mattarella, del quale ho pure grande stima. Ma nessuna risposta».
Quale pensa sia il motivo?
«Per me il governo croato si è opposto. Per gli esuli di Zara è però un riconoscimento importantissimo. Eravamo Regno d’Italia, Zara era una città italiana e sono morte duemila persone sotto quelle bombe. Sono morte per restare italiane. E altre ventimila sono andate in esilio».
Cosa manca ancora alla storia degli esuli?
«C’è da risolvere la questione del debito dello Stato italiano nei confronti dei giuliano-dalmati per i beni abbandonati nella ex Jugoslavia: da 2,3 a 3,4 miliardi di euro... E io vorrei sapere anche com’è morta mia zia Bianca».
Una sede della Luxardo a Zara?
«Eccome no, in Croazia non riesco neppure a recuperare i ritratti di famiglia: sono andato due volte a Zagabria a parlare con i ministri croati accompagnato dall’ambasciatore. La risposta? “Abbiamo troppi ebrei che ci chiedono la restituzione dei loro beni, non possiamo farlo anche con gli italiani”».