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 2025  febbraio 10 Lunedì calendario

Craxi, quel disperato soliloquio nella villa bunker in Tunisia

Pubblichiamo il primo capitolo del libro «Il fantasma di Hammamet» di Massimo Franco, che nel marzo 1995 incontrò Bettino Craxi durante la latitanza africana (per i familiari «un esilio»)
«Passeport, monsieur...». Una voce in francese impastata dal sonno e una mano escono dalla garitta ricavata subito dietro il grande portale bianco ad arco. Sono di un soldato tunisino con i baffetti neri e l’aria annoiata, armato di pistola. Un secondo giovane baffuto in divisa beige segue la scena qualche metro più indietro, imbracciando un mitragliatore. L’ospite si trova sul territorio della Tunisia. Sta entrando in una casa privata della Tunisia. Eppure è come se varcasse un posto di confine, se penetrasse in una sorta di extraterritorialità riservata a pochi, controllatissimi privilegiati. Di più, è come se fosse ammesso in un altro Stato: il regno di Bettino Craxi.
Il passaporto scompare: sarà restituito solo alcune ore dopo, alla fine dell’incontro. L’ospite viene guidato lungo il vialone della villa, illuminato da due file di lampade basse, da giardino, e si meraviglia per il silenzio di tomba. Si sentono soltanto il rumore dei passi sul selciato e il fruscio di alcune ombre nere – «soldati», gli dicono – tra le piante lungo il muro di cinta. L’ospite lancia un’occhiata a una Bmw targata Mantova piena di stecche di sigarette al mentolo, parcheggiata accanto alla grossa jeep Toyota, nera, con la quale è stato portato al «confine». Sale una piccola rampa di scale che danno su un giardino incorniciato da quattro palme da datteri. Supera due leoni di pietra e alcuni giocattoli sparsi sulla terrazza che porta all’ingresso principale della villa. E finalmente varca la porta, intimidito da un ritratto a olio di Giuseppe Garibaldi.
Pochi metri a destra, e viene ammesso nella Stanza, con la s maiuscola, come sempre quando si tratta di andare a fare visita a Bettino Craxi.
Quella non è una villa qualunque. E non è normale nemmeno l’uomo basso, tarchiato, che sta accompagnando l’ospite: porta uno strano borsello a tracolla con dentro, si può esserne certi, una pistola. E sfoggia una stramba cravatta piena di garofani rossi, regalo di «monsieur le President». Una di quelle che si comperavano ai congressi del Psi. Il primo indizio del craxismo.
Tutto sembra affidato a una sapiente regia. L’ospite deve capire che si trova al cospetto di un re, di un dittatore, di un grande latitante, comunque di un potente, per quanto acciaccato e di malumore. Un uomo misterioso e temibile, che si sente minacciato in ogni momento. Per questo, l’udienza è stata concessa dopo molte telefonate. E lasciata cadere dall’alto, come uno smisurato privilegio. Fino all’ultimo non si sapeva se l’incontro ci sarebbe stato, né quanto sarebbe durato. La villa non è lontana dalla zona degli alberghi. Ma la strada che conduce ai piedi del lungo muro bianco di recinzione, in quel periodo, è bloccata da un’autoblindo dell’esercito mezzo chilometro prima della casa: per passare, bisogna essere accompagnati.
La guida serve anche per indagare sull’umore, anzi il malumore ormai leggendario di quell’ex padrone della politica italiana. Alla mattina Craxi è praticamente inavvicinabile. Telefonargli nelle ore di sole significa, il novanta per cento delle volte, sentirsi sbattere la cornetta in faccia, dopo un crescendo di urla irate. Quando poi riceve qualcuno e ha la luna storta, pare che Craxi lanci un segno all’uomo con le cravatte tempestate di garofani dopo appena dieci minuti. L’interlocutore viene accompagnato rapidamente fuori, come un intruso che non è riuscito ad apparire interessante, e ha approfittato fin troppo della sua pazienza e magnanimità. 

L’ospite non ha dubbi: la stanza dove sta per entrare è una specie di sala del trono. Regale, a suo modo. Regale nella sua imprevedibilità. È una sera di primavera, ma ad Hammamet fa freddo. Durante l’inverno è saltato per un po’ l’impianto di riscaldamento: non era costruito per rimanere acceso tutto l’anno. L’ospite varca la porta e viene investito da una vampata di calore: un caldo denso di umori, avvolgente come il tepore che può sprigionarsi dalla tana di un animale. E subito capisce che quel re in disgrazia non lo deluderà.
Craxi se ne sta sdraiato sul letto, con indosso i pantaloni di una tuta da jogging grigio ferro, slabbrata. Sopra porta una camicia marrone di lana ruvida, tunisina, con i taschini sul petto, aperta sul collo; da sotto spunta una maglia di lana. Si tratta, ecco la prima sorpresa, di un letto d’ospedale, con lo scheletro d’alluminio rivestito di nastro adesivo bianco. L’ex presidente del Consiglio l’ha fatto mettere nella sua stanza dopo l’ultimo ricovero in clinica. Ha il piede sinistro fasciato, sotto la pianta si indovina una macchia di sangue. «Colpa del diabete» dice lui, ostentando noncuranza. Solo quello destro è coperto da un calzino. Craxi si gode il calore secco del camino acceso, memore dei giorni africani all’addiaccio. E fuma.
Sono le solite sigarette al mentolo, come quelle nei pacchetti accatastati sul sedile posteriore della Bmw in giardino. E ogni volta, questo colpisce l’ospite ancora di più, Craxi butta regalmente la cicca in terra, facendola schizzare con pollice e indice su un tappeto butterato dalla brace dei mozziconi come un campo di battaglia bombardato. Il misterioso accompagnatore con il borsello e la cravatta con i garofani, che poi dichiarerà di essere un ufficiale tunisino, si china a raccogliere pazientemente ogni cicca, e la mette nel posacenere. Sembra la stanza di un uomo solitario, quasi senza famiglia, anche se in realtà, in quel momento, la villa è affollata come una comune. Alle pareti della stanza sono appesi una ventina di disegni erotici: donne nude riprese di schiena, in varie posizioni. E accanto al caminetto e appoggiato un fucile automatico.
È quello, il mondo degli oggetti di Craxi. Insieme a un tavolo bianco in un angolo del salone, ricoperto di carte, ritagli, scarabocchi ammassati alla rinfusa accanto a un fax. E alla stanza al piano di sopra: la camera accessibile solo a lui e a pochi altri, dove Bettino coltiva quotidianamente il frutto della vendetta, rileggendosi nottetempo i dossier, ascoltando i nastri, rivedendo le videocassette degli incontri con potenti ignari di essere filmati o registrati, negli anni del pentapartito. Sono il suo arsenale: il deposito segreto di legami che la Seconda Repubblica ha rimosso ma non cancellato del tutto. Perché quel fucile? Perché tutti quei soldati armati fino ai denti? «Perché c’è un sacco di gente che mi vuole morto» risponde con l’aria di chi affronta una domanda stupida.
La villa e bella, grande, ma non la reggia di cui si favoleggia. L’attaccapanni all’ingresso è sbilenco, in corridoio si scorge, accanto al muro, una piccola mountain bike. In cucina si affaccendano alcuni giovani inservienti tunisini, aiutati da Bobo Craxi, il figlio, con la moglie Scintilla. La signora Anna fa una fugace apparizione, resta defilata rispetto al mondo del marito, come una regina malinconica. È abituata a quel viavai di gente misteriosa, come si è abituata, tanti anni prima, a un marito pendolare fra Roma e Milano.
Craxi fatica ad alzarsi. Per andare fino in cucina a prendersi pomodori e polpette piccanti, che mangiucchia con le mani, ha dovuto muoversi con cautela, zoppicando. Un guaio: a forza di camminare appoggiandosi solo sul destro gli sono venute due ernie del disco.
Ma quando si siede sui divani di pietra, coperti da materassini di gommapiuma bianchi su cui sono poggiati cuscini beige a righe rosse oppure a disegni triangolari arabi, si rilassa. Comincia a parlare, e quasi non si ferma più. Non è un dialogo, ma un lungo, disperato, a tratti affascinante soliloquio. Craxi alterna analisi lucide sugli altri potenti al panegirico un po’ meno lucido di sé stesso. Racconta di quando era capo del governo e il marco tedesco viaggiava intorno alle 730 lire: non era ancora arrivato l’euro. Narra di un’età dell’oro e la fa coincidere con la sua presidenza del Consiglio.