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 2025  febbraio 09 Domenica calendario

Interivista a Tricarico

Il suo nome d’arte è come l’appello alle superiori: il cognome. Tricarico.
E lui, in qualche modo, è sempre legato ai tempi della scuola, a quando i grigi erano uccisi dal tutto nero o tutto bianco; quando l’essenza vinceva sull’apparenza; quando le bugie (vere) erano affari da adulti; quando gli adulti, magari la maestra, chiedevano un tema sul papà, solo che il papà era già morto, e allora la maestra insisteva, “qualcosa ricorderai”. E la maestra veniva appellata “puttana”.
Quel “puttana” ha venticinque anni, era nel brano Io sono Francesco e ha acceso per la prima volta il riflettore su un ventinovenne alto, un po’ dinoccolato, in apparenza serio, serissimo, con una voce intensa e tormentata. Una voce di chi ha visto, vissuto, percepito, ma ancora non sa. “Nasco in periferia, a Milano sud, e la mia è una storia semplice, molto nazionalpopolare; poi i casi della vita mi hanno portato verso una mia destinazione, una mia ricerca. E non so se mi sono distanziato dalle origini”.
È nato in un ambiente che oggi è zona franca della trap.
Sì, e questa puttanata ha un po’ rotto le palle. Sono un cliché. Sono materiale da sceneggiature.
In particolare?
La celebrazione della periferia in quella chiave; loro se la cantano e se la suonano, noi la vivevamo come un momento di grande vitalità.
Anni 70.
C’era un mix straordinario di esperienze, compresa una scuola media sperimentale dove ho iniziato a maneggiare il flauto; poi da grande sono entrato in Conservatorio e ho scoperto “la Milano bene”, l’alta borghesia.
E lei?
Sempre stato defilato, presente ma anche no.
Però?
Trovavo comunanza d’intenti là dove c’era la ricerca della bellezza. Una ricerca a volte metafisica.
In periferia la prendevano in giro?
Alle elementari ci ammazzavamo: ti confrontavi con violenza, bullismo, scorrettezza…
Anche lei?
Certo, si sopravvive.
Legge della giungla.
Ci si forgiava, era parte della crescita: erano tempi più corretti, senza finto buonismo.
Cattivi ma sinceri.
Cattivi ma tendenti al buono.
Però è sopravvivenza.
Alla fine siamo animali.
Ha scritto un pezzo, Mi state tutti immensamente e profondamente sul cazzo. E fa un lungo elenco in cui ci sono anche i trapper, Amadeus, Sanremo…
Non sono in ordine d’importanza.
Chiaro.
Alla fine la voce più importante è la paura della morte dell’Occidente. Che vivo come un grande limite.
Ha toni calmi, pacati, mentre i suoi testi…
Preferisco parlare con la musica: nelle canzoni si è più liberi, o almeno mi sento tale.
Quando parla senza musica?
Si entra in un ambito personale e devo stare maggiormente attento.
Artista?
Se mi chiama così…
Maestro.
(Sorride) Sono diplomato.
Ha insegnato?
Avevo una supplenza di tre settimane in una scuola media. Il primo giorno mi sono licenziato.
Perché?
Non ero abbastanza preparato, i ragazzi erano attenti e non potevo prenderli in giro; mi resi conto della responsabilità.
E in quell’unico giorno?
Li portai in giardino, chiesi loro di scegliere una frequenza alla radio e si misero a ballare.
“Puttana la maestra”. Fu censurata…
Problemi con la mia etichetta, la Universal. Mi chiesero di realizzarne tre versioni: una pulita, senza parolaccia, una con il bip che lasciava intuire la “puttana” e l’ultima proprio censoria.
Quindi?
Fu una pre-censura.
Non si è turbato.
L’importante era che uscisse.
Necessario.
Volevo vivere di musica.
Un’urgenza, una necessità?
Entrambe. Da tempo scrivevo.
Sono passati 25 anni. E poi è diventato famoso.
Secondo Lucio Dalla la fama serviva per trovare sempre posto in ospedale e al ristorante.
E lei?
Per me alti e bassi, ma l’aspetto che mi ha colpito è la possibilità di continuare a suonare. A scrivere. A ricercare.
Una solidità economica.
Anche quella va e viene.
Le interessa?
I soldi sono importanti perché ho due figli, altrimenti meno. Sono un italiano, “tengo famiglia”.
Arriva il successo, e…
Mi ha spiazzato la perdita dell’anonimato: non puoi più osservare, sei osservato. Mentre a me piace osservare; il successo richiede solidità mentale per gestire l’attenzione altrui spesso non motivata.
Le case discografiche si sono approfittate di lei?
Forse sono io a essermi approfittato di loro. Ho combinato sempre grandi casini.
Sempre.
Temo di essere stato poco educato.
Traduciamo?
Con la Universal mollai la promozione del secondo album, dopo l’uscita del primo singolo.
Cos’era successo?
Non mi piaceva più l’album.
Così?
Atteggiamento infantile.
Ha conosciuto Dalla?
No, l’ho visto due volte e non l’ho mai disturbato. Magari non sapeva chi fossi.
Meglio con De Gregori.
Grande artista, grande integrità. Ho aperto alcuni suoi concerti.
Cos’è l’integrità?
Uno che non ha mai ceduto a determinati meccanismi.
Lei ha ceduto?
Non sono in grado, riesco solo a portare avanti quello che è mio. Quindi non so se è integrità; a volte mi dispiace non essere in grado di andare incontro alle aspettative altrui.
È un cantante di musica leggera?
Sempre stato il mio sogno; nonno aveva una bella radio, la teneva sempre accesa, da lì ascoltavo proprio Dalla: la guardavo e pensavo “voglio che la mia voce esca da lì”.
Dove si sente a suo agio?
Sul palco. Anche quando non lo sono. Almeno mi ci sento.
Pure a Sanremo?
Ho un bel ricordo, ma alcune situazioni non mi hanno convinto.
Tipo?
Puttanate, magari non mi piaceva il cantante prima di me.
Ne ha fatti tre…
Ho capito che per non cadere nel frullatore devi portare una bella canzone; quella più importante è stata Vita tranquilla.
Insomma, ama il palco.
Ci sto bene, è un momento di vita in cui devo essere presente.
Ama sentire il pubblico cantare i suoi brani?
È uno strano effetto, quando accade resto stupito, però mi fa piacere e oggi lo apprezzo di più, tanto da restare zitto.
E prima?
Mi imbarazzavo.
Da bambino chi voleva diventare?
Meccanico di biciclette.
Serio?
Si rompeva sempre.
Poster in camera?
Non me ne fregava niente.
Nessun mito?
A 9 anni? No.
Passioni?
Forse giocare, stare con i ragazzi in cortile; (ci pensa) più che un poster, rimpiango la sensazione di grande vitalità, di grande socialità.
Intaccate, quando?
Dall’inizio dell’adolescenza, quando ho preso coscienza di determinati fatti.
“Puttana la maestra” quando l’ha creata?
A 27 anni. Perché Mauro Tondini, il produttore, mi disse: “Se non va bene il primo singolo ce ne andiamo a casa”. Allora mi consigliò di scrivere un pezzo come se mi presentassi e pensai a un episodio della mia vita sul quale riflettevo spesso…
Ed è arrivato il successo. Era strutturato?
Mica tanto, ho tempi molto lunghi; (abbassa ancora il tono) scrivere e continuare a farlo richiede un po’ follia, di ossessione, di sana malattia.
Possiede tutto questo?
Non posso rispondere, però vado avanti. Mi piace. Amo la musica, le parole, il palco.
Ha mai paura che si possa spegnere il riflettore?
È già successo diverse volte; (alza di un tono) al primo disco la Universal mi disse: “Sei già finito”. Sì, con loro non è andata bene, non ero tanto disponibile.
O affidabile.
Esatto; è una fiamma interiore, quella che ti muove. Se ti fai condizionare dall’esterno, è finita. Devi restare un visionario senza alternative.
L’accusa che le rivolgono maggiormente?
Per un certo periodo non ho goduto di una buona fama. La frase era “è un grande artista, ma…”. E quel “ma” può pregiudicare tutto.
Un tempo sarebbe stato definito bohémien.
Mai affrontato la vita come un bohémien; l’accusa era più su carattere e comportamento; non avevo grigi, tutto bianco o nero, ero un fondamentalista, un estremista. In realtà lo sono ancora.
Chi ama ascoltare o vedere dal vivo?
Battiato e Lou Reed.
Entrambi non erano molto mobili…
Freddie Mercury lontano da me.
Avrebbe voluto avere qualcosa di Freddie Mercury?
Non ho mai desiderato essere qualcun altro; solo all’inizio guardavo a Paolo Conte.
Dal palco ha mai chiesto il battito ritmato della mani?
Non ce la faccio.
Per carità.
Magari è un limite, ma non mi muovo molto.
Battiato lo ha conosciuto?
Come con Dalla, però ci siamo scambiati un saluto. Fu bello.
Lei non si fa avanti.
Io? No.
Mai.
Al massimo, a un Sanremo, ho portato i fiori a De Niro.
Messa così pare tetra.
Dopo l’esibizione mi hanno consegnato un mazzo e l’ho regalato a lui insieme a un “grande”.
Basta così.
(Ci ripensa) Da piccolino lavoravo in teatro come macchinista in una compagnia con Alessandro Gassmann e Gianmarco Tognazzi. Un giorno venne Vittorio Gassman a salutare il figlio. E andai da lui.
Eroico.
Una sera chiesi ad Alessandro: “Com’è essere famoso? Ti imbarazza venir riconosciuto?” E lui: “C’è grande differenza tra paesi e città: nei paesi sono pressanti”.
Quali altri lavori ha fatto?
Sondaggi telefonici e un’estate ho pulito le case.
Quanti insulti con il call center?
(Ride) Abbastanza, ma ero giovane e non importava.
Con i soldi guadagnati?
Ho comprato un motorino.
Il suo timbro vocale è simile a quando canta.
(Silenzio infinito) Mi fa piacere.
È vero pure quando parla.
Il “vero” mi lusinga.
Lei chi è?
Ho sempre fuggito le definizioni, ma non per diplomazia, perché non lo so. E meno si sa di sé, meglio è. Però sono un musicista.