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 2025  febbraio 09 Domenica calendario

Tutti gli affari italiani in Libia

La storia delle relazioni tra l’Italia e la Libia, dallo “scatolone di sabbia” di Salvemini al maresciallo Graziani, è lunghissima e non certo commendevole. La storia ha un peso, ma qui non ci si occupa di antichi accadimenti, né dei tanto burrascosi quanto proficui scambi col regime di Gheddafi, bensì dell’oggi e l’oggi parte nel 2017, sei anni dopo i bombardamenti (“contro l’Italia”, li definì Prodi) di Francia e Gran Bretagna sulla Libia: è in quell’anno che il ministro dell’Interno di Gentiloni, Marco Minniti, definisce il nuovo rapporto tra Roma, Tripoli e Bengasi, le sedi dei due governi che, litigando, si spartiscono l’attuale Libia. Governi di gente non proprio per bene, che gestisce per nostro conto i flussi migratori e grazie ai quali abbiamo ripreso a fare affari nel Paese africano: Eni, Saipem, Webuild, ma anche tante Pmi fanno soldi laggiù, affari sempre in bilico, legati alla pericolante vita dei “politici” locali, che poi sono spesso capi clan o signori della guerra, tipo il torturatore-generale Almasri.
A non voler tenere conto dei migranti, è l’energia che rende Tripoli e Bengasi fondamentali per l’Italia, specie da quando la Russia è quasi uscita dal nostro mercato: nei primi sette mesi del 2024 la Libia è tornata la prima fonte di petrolio per l’Italia dopo un quindicennio (il 22,3% di tutto il greggio importato). Poi i due governi libici hanno iniziato a litigare sulle nomine nella Banca centrale libica – che peraltro gestisce anche i soldi dell’export di petrolio – e la produzione è stata bloccata per qualche tempo. La ritorsione energetica è un classico della nuova Libia: sempre l’anno scorso era toccato a un impianto dell’iberica Repsol, dopo che la Spagna aveva emesso un “avviso di sorveglianza” per traffico d’armi nei confronti di Saddam Haftar, figlio del generale che comanda a Bengasi (gli era peraltro stato notificato in Italia…).
La nostra Eni, fin dal 1959, è una delle principali società Oil&Gas nel Paese, cui fornisce peraltro gran parte dell’energia per uso interno, dove opera in joint venture paritaria con la libica National Oil Corporation (Noc): nel bilancio 2023, l’ultimo disponibile, Eni dichiara ricavi in Libia per 4,3 miliardi con circa un miliardo di utile netto. E sono cifre destinate a salire visto che Noc ha l’obiettivo di più che raddoppiare la produzione di fossili entro il 2027. Dopo una pausa decennale, per dire, a ottobre sono riprese le esplorazioni Eni di nuovi giacimenti a Ghadames e altre partiranno a breve in mare nella zona di Sirte, mentre a 60 chilometri da Tripoli è previsto un impianto per la cattura e stoccaggio della CO2 (Ccs) sul modello di quello che il cane a sei zampe vuol costruire a Ravenna.
L’industria energetica non è solo Eni. Ci sono i fornitori di pezzi o macchinari o i grandi gestori infrastrutturali. Saipem, ad esempio, ha costruito, e l’anno scorso vinto il contratto di gestione, il gasdotto GreenStream che dalla stazione di compressione di Mellitah in Libia porta il metano a Gela. Altro grosso affare è la cosiddetta Autostrada della pace da 1.800 km, parte dell’accordo stretto tra Berlusconi e Gheddafi nell’agosto 2008 per cui l’Italia s’è impegnata a stanziare 3,6 miliardi di euro: Webuild costruirà il “lotto 1”, ma un altro pezzo di autostrada è stato assegnato alla Todini costruzioni.
Più in generale l’Italia è il primo partner commerciale della Libia: l’import è soprattutto energetico, ma nel 2023 le esportazioni italiane – dall’agroalimentare ai macchinari alla farmaceutica – hanno fruttato 1,7 miliardi di euro e nei primi otto mesi del 2024 altri 1,5 miliardi (+34,5% rispetto allo stesso periodo del 2023). All’Italia serve la Libia, è un fatto e a testimoniarlo bastino le quattro visite di Giorgia Meloni nel Paese, l’ultima a ottobre scorso: dal 12 gennaio, chi volesse imitarla ha a disposizione anche il volo diretto di Ita da Roma a Tripoli, ripristinato dopo oltre un decennio.