Corriere della Sera, 9 febbraio 2025
Intervista a Roberto Andò
Roberto Andò: «I neoborbonici li disprezzo e riscopro il Risorgimento. Garibaldi? Un po’ manipolatore. La furbizia è la piaga di Palermo»
di Aldo Cazzullo
Intervista al regista de «L’abbaglio»: «Il mio caro amico Monicelli diceva a noi giovani che la speranza è un inganno, ma con Falcone e Borsellino si era tornati a sperare»
Roberto Andò: ««I neoborbonici li disprezzo e riscopro il Risorgimento. Garibaldi? Un po’ manipolatore. La furbizia è la piaga di Palermo»
Toni Servillo (al centro) in una scena del film «L’abbaglio» di Roberto Andò
I protagonisti sono Toni Servillo nel ruolo del colonnello Orsini, che Garibaldi pone a capo della manovra diversiva – dovrà fingere la fuga e attirare l’esercito borbonico mentre l’eroe piomberà su Palermo – e Ficarra e Picone, che hanno il ruolo di Sordi e Gassman: due anti-eroi, che nel momento cruciale sono pronti a morire pur di non tradire. Il regista è Roberto Andò, siciliano – «Il coccodrillo di Palermo», pubblicato dalla Nave di Teseo, è il suo ultimo libro – che dirige il teatro di Napoli.
Andò, oggi i neoborbonici a Napoli sono fortissimi, e anche in Sicilia si fanno sentire. Ma lei nel suo film i Borbone li tratta malissimo.
«Li tratto come meritano. I soldati borbonici bruciarono i paesi, da Partinico a Torretta, che avevano accolto i garibaldini feriti con commovente generosità e grande coraggio. Le scene delle madri che piangono i figli uccisi nella repressione borbonica sono autentiche. Non a caso i neoborbonici mi detestano. Ma pure io di loro penso il peggio possibile. Come fanno a difendere l’assolutismo? Non ho capito se siano tanti, o se siano soltanto bene organizzati».
Entrambe le cose. Sostengono che il Regno delle Due Sicilie fosse libero, ricco e felice, e che Garibaldi e Cavour abbiano rovinato il Sud. Proprio come i nordisti sono convinti che, se il Sud non ci fosse, loro vivrebbero ricchi e felici come in Svizzera o in Baviera.
«Sì, all’apparenza dicono due cose opposte, in realtà dicono la stessa cosa: la colpa è sempre di altri italiani. E il Risorgimento viene sempre maltrattato. In realtà dovremmo riscoprirlo. Il Risorgimento fu un grande movimento politico e culturale, che infiammò una generazione di patrioti. Anche se l’esito finale in parte fu deludente».
Il titolo del film, L’abbaglio, sembra alludere sia al diversivo inventato da Garibaldi per entrare in Palermo, sia appunto alla delusione dell’Italia unita.
«I siciliani poveri attendevano una rivoluzione sociale che non ci fu. La mafia esisteva già; ma dopo l’arrivo di Garibaldi trovò il modo di insinuarsi e di radicarsi, fino a istituzionalizzarsi».
Nel film però il colonnello Orsini rifiuta il sostegno dei mafiosi, che infatti gli chiudono il paese in faccia.
«E Orsini, dopo aver frenato il suo luogotenente vicentino pronto ad aprire il fuoco – interpretato da Leonardo Maltese, l’attore del Leopardi televisivo -, gela i mafiosi, i baroni, i soprastanti: “Voi siete ombre, larve, fantasmi. Nel mondo che costruiremo non ci sarà posto per voi”. Purtroppo, non è andata così».
Orsini è un personaggio storico, vero?
«Sì. È l’anti-Gattopardo. Un aristocratico siciliano che dopo la rivoluzione fallita del 1848 diventa mazziniano e volta le spalle alla sua famiglia d’origine, compresa la madre, che va a trovare in una delle scene più dolenti del film. Orsini vuole cambiare tutto; ma per davvero».
Ficarra e Picone invece sono due personaggi immaginari: due siciliani che disertano al primo combattimento, trovano rifugio in un convento di suore cattivissime...
«Sì, i conventi siciliani erano universi singolari, zone franche, pensi ai frati di Mazzarino che erano dei veri e propri delinquenti, e mi sono divertito a raffigurare questo microcosmo di monache, che poi così cattive non sono».
...Poi Ficarra e Picone vengono ritrovati da Orsini, e rischiano la vita pur di salvare i garibaldini e il paese che li ha accolti, Sambuca.
«È una storia vera che racconta Leonardo Sciascia, ne Il silenzio. Anche se ovviamente le figure del finto parroco, Ficarra, e del finto sindaco, Picone, sono inventate. Di solito il leader della coppia è Picone, e il cattivo è Ficarra. Qui accade il contrario: Ficarra è il capo, e Picone è il cattivo. Rovescio il loro schema per metterli scomodi».
Ficarra è un po’ Franco Franchi.
«E Picone è un po’ Ciccio Ingrassia. Ma il loro vero modello sono Jack Lemmon e Walter Matthau. Con un richiamo al cinema muto di Buster Keaton».
A differenza di Sordi e Gassman ne La grande guerra, Ficarra e Picone non vengono fucilati. Ritrovano suor Assuntina, impersonata da sua figlia, Giulia Andò, che ha lasciato il convento...
«Sì, rispetto a La grande guerra il finale è più amaro e si proietta nell’oggi. Sono stato molto amico di Monicelli. Ricordo quel che diceva ai giovani: “Non fatevi ingannare dalla speranza. La speranza è una trappola. Quando vi dicono di sperare, vi stanno prendendo per il culo”».
Lei non ha speranza per la Sicilia?
«Non dico questo. Nel film, Orsini sostiene che i siciliani si rivelano nei silenzi. Di solito si dà del silenzio un’interpretazione negativa: l’omertà, la complicità con il male. Ma il silenzio è anche serietà, rifiuto della retorica e dell’inganno. Il silenzio è preparazione, riflessione».
Una delle figure più luminose del film è il giovane volontario siciliano che cade in combattimento.
«Pensi che è un attore appena uscito dall’istituto del dramma antico di Siracusa. Ai ragazzi il film piace molto, abbiamo organizzato una proiezione per novanta scuole e diciassettemila studenti».
Garibaldi non ne esce benissimo.
«Non è l’eroe di “Viva l’Italia” di Rossellini. È un Garibaldi inquieto, problematico, non retorico, un po’ manipolatore, che teme di non farcela. I siciliani non hanno molta simpatia per Garibaldi. Neppure Sciascia ne aveva».
Servillo è al quarto film con lei.
«Siamo uomini dallo stesso sentire. Nati nello stesso mese dello stesso anno, il gennaio del 1959. Entrambi cresciuti nel teatro».
In Viva la libertà, il film tratto dal suo libro Il trono vuoto, Servillo interpretava il segretario del principale partito della sinistra italiana. Qualcuno pensò a Veltroni.
«Veltroni in effetti si riconobbe nel film. E poi si è dedicato al cinema. Ma io non pensavo a lui, o comunque non soltanto a lui. E anche Ingrao aveva studiato cinema e sognava di fare cinema».
Lei è palermitano, Servillo napoletano. Qual è la differenza tra le due capitali del Sud?
«La percezione della morte. A Napoli la morte è commedia; a Palermo è tragedia. Il napoletano gioca con la morte, la sublima; il palermitano ci convive, se la porta sempre dietro».
Come in quella splendida canzone popolare, cantata anche da Modugno e da Battiato, Vitti ’na crozza, che sarebbe un teschio.
«Ora ca sugnu vecchiu di tant’anni, chiamu la vita e morti m’arrispunni...».
Cos’è il coccodrillo di Palermo che dà il titolo al suo ultimo libro?
«È la storia di un documentarista che ritorna nella sua città, da cui è fuggito convinto di non rivederla più. Ma la vicina di casa lo avvisa che qualcuno è entrato nell’appartamento dei genitori, ormai morti. Lui ritrova le intercettazioni telefoniche che il padre poliziotto aveva conservato illegalmente, con un messaggio in cui prega di restituirle alle persone interessate. Scopre così i segreti del padre, compreso forse quello della sua morte...».
Sì, ma il coccodrillo?
«Un grande cronista dell’Ora, Salvo Licata, mi mostrò un coccodrillo imbalsamato in una trattoria della Vucciria. Si racconta che fosse confluito direttamente dal Nilo al fiume Oreto, e che sia stato ucciso perché aggrediva i ragazzini appostato nella fontana del mercato... Un paradigma del rapporto tra verità e finzione che segna la Sicilia. Storie di cui non si riesce mai a venire a capo».
Com’è la Palermo di oggi?
«Una città distrutta dalla furbizia. Dall’idea di essere più astuti degli altri. Quando ci torno non la riconosco».
Ha perso la speranza, come Monicelli?
«La speranza si era riaccesa con Falcone e Borsellino. L’ora della riscossa e del coinvolgimento è stata inghiottita dal cinismo. Ma io amo la Sicilia. È un’isola meravigliosa, sempre abitata da grandi menti, mai da spirito collettivo, che continua a fare male a sé stessa. Pensi cos’hanno fatto alla casa di Pirandello, svuotata dei suoi libri e riempita di pannelli digitali. Come diceva Sciascia: “Cu tuttu ca sugnu orbu, la viu nivura”».
Per quanto sia orbo...
«La vedo nera. Kafka e Leopardi non avrebbero detto meglio».
Pupi Avati propone un ministero per il cinema.
«Sono d’accordo. Dobbiamo restituire al cinema la centralità nella scena artistica che ha sempre avuto».
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