il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2025
Storie di giornalisti per caso
Si può diventare giornalisti per scelta o per vocazione. Ma anche per caso. Ed è quello che capitò a un gruppo di studenti siciliani quando, sulla spinta del Sessantotto, decisero di pubblicare un mensile intitolato Il giornale del Corleonese: una zona di frontiera, off limit, dominata da quella che era la più potente famiglia mafiosa. Ma loro avevano l’ambizione di lambire Palermo e arrivare fino a Sciacca, con l’obiettivo di intaccare la cappa dell’omertà e della convivenza con la mafia. Per poter mettere insieme le risorse e stampare il giornale, andarono alla ricerca di tutta la “carta straccia” che si poteva trovare. Nelle case, nelle cantine, nei negozi e nei magazzini. E finalmente, con la carta da macero che avevano raccolto, riuscirono a realizzare il loro sogno, sfidando le resistenze e le ostilità del sistema di potere locale. Arrivarono a vendere fino a cinquemila copie, ma durò tre anni. Poi, attaccati alla propria terra come i loro contadini, in pieno 1976 gli stessi artefici di quell’impresa concepirono un “giornale parlato”. In coincidenza con le elezioni convocate in diversi Comuni, organizzarono assemblee popolari per registrare le esigenze e le rivendicazioni della gente, influendo così sull’andamento della campagna elettorale. Furono due, in particolare, le categorie che si mobilitarono: quella dei contadini, sfruttati dagli intermediari, che si costituirono in cooperativa; e quella delle ricamatrici “dalle mani d’oro”, sfruttate anch’esse da commercianti senza scrupoli che andavano a rivendere i loro prodotti con il marchio “Made in Toscana”.
Questa è una delle tante “storie di donne, passioni, segreti, mafia ed eroi senza gloria”, che racconta con trasporto Giuseppe Cerasa, ex Ora di Palermo ed ex Repubblica, nel suo libro Sipario siciliano (editore Nino Aragno), in un capitolo intitolato appunto “Giornalisti per caso”. Una storia che può essere a suo modo istruttiva per due ragioni, tanto più oggi che i cronisti vengono sottoposti allo “spionaggio di Stato”. La prima è che il giornalismo civile, nonostante gli ostacoli e le difficoltà materiali, ha un ruolo e una funzione insostituibili all’interno della società. La seconda ragione è che i giornalisti, se vogliono fare i giornalisti e non essere declassati a impiegati, devono trovare il coraggio di mettersi in proprio – come si suol dire – per organizzarsi e lavorare senza padroni. O quantomeno, per trovare un punto di equilibrio in modo da convivere senza dipendenze e condizionamenti. Di fronte alle concentrazioni editoriali che ormai dominano il mercato dell’informazione, e all’avvento dei cosiddetti over the top – le piattaforme digitali come Google, Facebook, Amazon & C. – che per mezzo degli algoritmi saccheggiano in Internet i contenuti prodotti dai giornalisti, occorre creare le condizioni perché possano crescere e sopravvivere testate autonome e indipendenti, cartacee e online. Presupposto fondamentale per ottenere e coltivare la fiducia dei lettori. Questo è un compito che spetta alla politica, ammesso che voglia difendere effettivamente il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza. A cominciare dall’erogazione dei finanziamenti pubblici a favore di autentiche cooperative, non controllate direttamente o indirettamente da proprietà più o meno occulte che fanno affari in altri campi. Fino a uno Statuto dell’editoria che fissi un limite azionario alla partecipazione dei grandi gruppi industriali o finanziari. Ed è una che solo uno schieramento progressista può assumersi, in difesa della libertà di stampa e quindi della democrazia.