Il Messaggero, 8 febbraio 2025
Intervista a Isabella Ferrari
Tra un viaggio e l’altro, il tempo trova un suo spazio e la memoria una propria dimensione: «Apro un cassetto ed esce il fax ingiallito di un antico fidanzato, spolvero un libro e leggo una dedica inattesa o un passo che ho sottolineato in un’età che non è più la mia e mi riporta ad allora».
Tutto quanto si srotola come di un film la pellicola perché anche se gli anni si sono dati il cambio e ha fatto freddo e caldo in democratica alternanza, Isabella Ferrari sa che ogni stagione ha soffiato un vento diverso e non esiste un copione che protegga dalla vita: «I rimpianti, che pure covo, si mescolano alle cose che ho fatto, alle porte che si sono chiuse, a quelle che si sono aperte, alle avventure, ai voli e alle cadute. Avrei potuto avere un’esistenza diversa? Sicuramente. Ma se mi guardo indietro lo faccio con il sorriso e negli anni che mi sono messa alle spalle non c’è niente o quasi che non mi piaccia».
Che rapporto ha con ciò che è stato?
«Non voglio tenere i piedi nel passato. Non ce la faccio. La nostalgia è un sentimento che non mi ha mai affascinato».
Come mai?
«Forse perché mi sono ritrovata a vivere intensamente fin dall’inizio o forse perché il presente mi interessa di più di ciò che è già avvenuto e non posso più cambiare».
Cosa c’era ieri?
«I covoni di paglia, le frittelle impastate da mia nonna con l’acqua e la farina, la raccolta dei pomodori, l’odore di stallatico che penetrava le narici e mi accompagnava anche nel sonno, i piedi neri dopo aver pestato l’uva nelle tinozze, la fatica di arrivare fino a sera perché a Cà Fogliazza, il borgo di campagna in cui sono cresciuta, tutti trottavano fin dall’alba. Mio padre si alzava alle 5 del mattino e d’inverno, prima di accendere la macchina, era costretto a spalare la neve».
Quali erano i suoi giochi d’infanzia?
«Non c’erano. Lo spazio ludico era rappresentato dalla campagna, dalla natura, dalla corsa al fiume per lavare i panni. È strano dirlo, ma in quella esistenza rurale c’era l’eleganza che nessun lusso può restituire. Ogni tanto quando vado dalle parti di Piacenza passo a rivedere quei luoghi e mi si allarga il cuore».
È malinconia?
«Forse è tenerezza, anche se la malinconia non mi spaventa e non mi dispiace: aiuta a guardarsi dentro, a rendere i contorni più nitidi, a crescere».
Lei è cresciuta con il sogno di diventare attrice?
«Io non lo sognavo, ma lo sognava mia madre Maria, fin dal principio. Qualcuno aveva detto “oggi è nata un’attrice” e lei aveva finito per convincersene. Era un’epoca in cui si favoleggiava su Ingrid Bergman o sui reali di Monaco. Mia madre desiderava andarsene via dalle stalle e andare verso le stelle».
Usò lei per realizzare il suo sogno?
«Puntò tutto su di me senza chiedermi se lo volessi anche io, ma questo l’ho capito solo dopo. La mia adolescenza è divisa a metà: la prima parte, trascorsa sulle passerelle dei concorsi di bellezza con mia madre ad applaudire in prima fila e la seconda, a Roma, travolta dal successo di Sapore di mare, il mio primo film. Sono diventata famosa a 17 anni e in mezzo, qualcosa che mi aiutasse a capire dove stavo andando, non c’è stato».
Sua madre era contenta, lo era anche suo padre?
«A casa mia comandavano le donne. Si faceva ciò che decideva mia madre, la figura importante che diceva cose che sembravano giuste e diventavano legge, la persona che mi teneva sulle ginocchia. Mio padre non si opponeva e – credo con dispiacere – sulle ginocchia non mi ha mai tenuta. C’era tra noi una distanza silenziosa, un pudore anche fisico che però non ha mai somigliato all’ostilità. Quando arrivai a Roma, mi fidanzai con Gianni Boncompagni, un uomo molto più adulto di me. A mio padre sarà sicuramente dispiaciuto, ma non me l’ha mai detto, non me l’ha mai fatto capire e di conseguenza non mi ha mai fatto sentire in colpa».
Sapore di mare la fece conoscere al pubblico. Prima di essere ingaggiata per il ruolo di Selvaggia incontrò Carlo Vanzina.
«Partecipai al provino perché Carlo mi aveva visto di sfuggita nella sigla di un programma di Boncompagni. Non avevo mai recitato e di certo non mi aveva scelta per le mie qualità, ma mi trattò come sanno fare soltanto i gentiluomini. Si dimostrò umano e curioso. Mi domandò della mia infanzia e della mia famiglia: seppe mettermi a mio agio. Mi propose di partecipare a un gioco e a un’esperienza diversa. Il film si girava d’estate, risposi di sì. Quello che accadde subito dopo non me lo sarei mai potuta immaginare. Pensavo di tornare a Piacenza e continuare la mia vita da pendolare con Milano. Frequentavo la scuola interpreti e ogni mattina partivo con la mia tessera ferroviaria nella tasca per rincasare dopo il tramonto».
Il treno partì, ma la portò altrove.
«Praticamente non avevo mai visto Roma. La raggiunsi dormendo nella cuccetta dell’Iveco di mio zio che faceva il camionista. Viaggiammo tutta la notte tra un panino e una sosta in autogrill. All’alba scesi nella periferia nord della città e ogni cosa mi apparve diversa da ciò che avevo visto fino a quel momento. Per la prima volta uscivo dalla mia camera di ragazza. Non ci misi più piede e non tornai più indietro, anche se per capire dov’ero e arrivare a Piazza Navona mi ci volle del tempo».
Sapore di mare, come abbiamo detto, le restituì una popolarità mostruosa.
«Mostruosa è la parola giusta. Improvvisamente non potevo più uscire di casa. Nessuno sapeva chi fosse Isabella, ma tutti conoscevano Selvaggia. I paparazzi appostati sotto il mio appartamento, la gente che mi fermava per strada, i produttori che mi offrivano contratti a lungo termine per interpretare ruoli leggeri nelle commedie. Io non avevo ancora un agente, ma dissi sì a tutto e girai i film che mi proposero. Mi sembrava di proteggermi e di pensare al futuro anche se non c’era nessun piano prestabilito né un progetto di carriera all’orizzonte».
Che carattere aveva a quel tempo?
«Docile. Non mi ribellavo a niente e a nessuno. Le cose accadevano e io ci stavo dentro»
“Il successo è una cosa piuttosto lurida. La sua falsa somiglianza con il merito inganna gli uomini”. La frase è di Victor Hugo.
«Sembra scritta apposta per i miei turbamenti di allora. Avvertivo il diffuso pregiudizio degli altri nei miei confronti e quel pregiudizio mi faceva star male. Sentivo di non meritarmi le cose che avevo ottenuto troppo in fretta e mi pareva di dover sempre scappare altrove. A vent’anni, dopo il successo improvviso e tutti quei film fatti senza avere un momento di pausa o una scuola alle spalle, mi venne un esaurimento nervoso. Presi dei farmaci per sentirmi meglio, ma stetti peggio. Così i miei decisero di portarmi in montagna. Buttai via le medicine e cercai di risalire in superficie».
Quella crisi cosa provocò?
«Il desiderio di fuggire da un sistema che mi stava precocemente stritolando. Di non partecipare al tipo di cinema che mi proponevano, di stare in disparte. Passarono un paio d’anni così e poi dal nulla arrivò un regista, Marco Tullio Giordana, che mi ridisegnò il destino. Mi scelse per Appuntamento a Liverpool, un film che raccontava la strage dello stadio Heysel e stravolse, a partire dal colore dei capelli, l’immaginario che mi aveva accompagnato fino a quel momento. Il film andò a Venezia. Appena videro il mio nome, alla proiezione per la stampa, alcuni giornalisti iniziarono a fischiare. Mi aspettavo il peggio e invece il giorno dopo, da parte di critici che temevo come Lietta Tornabuoni e Maria Pia Fusco, lessi critiche benevole».
Morando Morandini, recensore severo, scrisse: “Isabella Ferrari è l’acqua che dà vita al film”.
«E Dino Risi, lo stesso regista che dal suo megafono, durante le riprese di Dagobert, mi urlava: “sei una cagna”, si era fatto improvvisamente gentile. Incontrai camminando quest’uomo che sul set mi intimoriva, con i suoi capelli bianchi, il suo bastone e la sua erre agnelliana e lo trovai trasformato: “Sei la più brava” mi disse e pur essendo un bugiardo naturale, mi parve sincero. Giordana mi aveva traghettato sull’altra sponda, qualcosa era cambiato».
Si sorprese?
«Mi sorprese come mi ha sorpreso il successo, l’incontro con l’uomo che è diventato mio marito, la mia terza maternità, una malattia molto seria che non mi aspettavo. La vita ti sorprende proprio quando meno ti aspetti di essere travolta».
Il suo è un mestiere precario per definizione.
«L’ho sempre sospettato. Con i primi soldi guadagnati comprai subito una A 112 azzurra e una casetta. Un posto sicuro per proteggermi nel caso in cui la fortuna, così come era arrivata, mi avesse abbandonato all’improvviso».
Questa saggezza aveva una derivazione?
«La semplicità del contesto in cui ero cresciuta. Ho sempre avuto il senso del dovere e del lavoro. Non erano doti innate, ma la conseguenza dell’educazione. Investire i soldi ottenuti in un bene tangibile mi venne molto naturale. Quando ci trasferimmo dalla campagna a Piacenza vivevamo in periferia e l’unico svago era la parrocchia. Le festicciole con i cibi che portavano le famiglie, i valzer pudichi ballati nel cortile, i primi baci dietro le colonne».
Per essere una persona che non ama indulgere al ricordo del passato, la sua memoria è molto fotografica.
«I ricordi in realtà sono belli, forti e importanti, come lo sono i primi baci che non so perché si davano sempre a maggio e i primi amori che sbocciavano e morivano in agosto con le piogge e un languore che non so dirle».
Il suo primo amore?
«Un ragazzino calabrese incontrato al mare. Si chiamava Giuseppe e faceva il panettiere. Con un bastimento di cugini trascorrevo le vacanze in Liguria. Noi bambini dormivamo tutti insieme in uno stanzone e a ognuno toccava un compito: il mio era quello di comprare il pane. Di Giuseppe mi innamorai perdutamente: un vero amore, grande a assoluto come può accadere solo a quell’età. Tutto il resto è stato borghese». (Sorride).
Sa essere leggera.
«Leggera in verità non sono stata mai. Non mi riconosco quella dote, anche se rispetto a ieri oggi le cose vanno molto meglio».
Ironica, allora?
«Ironica già di più. Ho avuto la fortuna di avere molta ironia intorno a me, di poter godere della compagnia di persone spiritose e di sposare un uomo che ha saputo farmi ridere. Coincidenze che mi hanno aiutato».
Cos’altro l’ha aiutata?
«Gli amici. Quelli che ho conosciuto a vent’anni sono più o meno gli stessi di oggi. Qualcuno mi ha deluso, altri, pochi, mi hanno tradito. Ma i più sono rimasti e agli altri ho smesso di pensare perché il rancore è un esercizio troppo faticoso e io sono la persona più pigra che conosco».
Cos’hanno fatto di importante i suoi amici per lei?
«Hanno condiviso la vita: i dolori, le notti, i rischi, i pericoli, a volte anche le case. Valeria Golino, Maria Sole Tognazzi, Monica Bellucci. Persone che c’erano e ci sono sempre state. Con Monica e Maria Sole abbiamo abitato in un piccolo appartamento di Parigi. Monica, tranquillissima, si svegliava, beveva un cappuccino, fumava una sigaretta e cominciava a fare le sue telefonate. Io al contrario ero sempre inquieta, tormentata e agitata. Raccoglievo decine di monetine, andavo nella cabina sotto casa, chiamavo il mio analista e da lì facevo le sedute in piedi. Poi ci ritrovavamo a sera, felici di esserci l’una per l’altra».
Ne invidiava la serenità?
«L’invidia per me non è mai esistita. Non ho mai invidiato chi aveva una casa più bella della mia, chi aveva più soldi o chi aveva più attenzioni di me. Mi è persino successo che un’amica mi passasse un lavoro: il giorno in cui Valeria Golino mi disse “io questo film non posso farlo, vuoi provarci tu?” ce l’ho stampato in testa».
Che film era?
«Un giorno perfetto di Ozpetek. Telefonai a Ferzan e lo stanai: “Mi dici perché io non sarei giusta per recitare nel tuo film? Fammi un provino e ti dimostro il contrario”. Non era convinto, poi cambiò idea, ma se gli sia davvero piaciuta non l’ho mai saputo».
Con quel film A Venezia vinse il premio Pasinetti. Con Scola, sempre in laguna e in coppia con Sordi, una Coppa Volpi.
«La Coppa è lì, molto impolverata, in un angolo. Ogni tanto la pulisco e ripenso ad Alberto che come un esordiente, acclamato da tutti, si preoccupava dei suoi capelli, della sua giacca e di non sudare e ad Ettore che era un maestro caustico e severo. La prima volta che mi vide e mi scartò, mi disse: “Andresti bene per una copertina di Vogue o per un film di Visconti, sarebbe un peccato sporcare tutta questa bellezza”. Poi mi prese per Romanzo di un giovane povero e insieme al ruolo arrivò il premio. A Venezia ero preoccupata per il discorso. Mi consultai con il regista: “chi devo ringraziare?”. “Pensa soltanto a te. Ringraziati. Te lo meriti”» Anche quella volta, come sempre, non ne ero certissima».
C’è voluto più coraggio a convivere con l’insicurezza o a mettersi a nudo nella finzione?
«Sono diventata veramente un’attrice quando ho capito che in scena dovevo mettere anche tutte le gioie o le amarezze che avevo incontrato nella vita. Da allora, in ogni film a cui ho partecipato, c’ero io. E per accedere alla mia parte intima ho dovuto tirar fuori cose terribili. Quali non so e anche se le sapessi non riuscirei a dirle, ma di certo non hanno a che fare con l’essere nuda o vestita. Di quello non mi è mai importato niente. Il pudore, se esiste, è un’altra cosa. Sul set di Caos Calmo avevo una scena di sesso con Moretti: avevo paura ed ero in difficoltà. Iniziai baciando timidamente Nanni e lui sibilò: “Non siamo sul set di Sapore di mare”. Bastò. Capii che dovevo essere qualcos’altro. E in qualcos’altro mi trasformai».
Di cosa è fiera?
«Di essere stata coraggiosa nei periodi in cui lavoravo poco, non avevo progetti all’orizzonte e sentivo il concreto disinteresse di registi e produttori. Avrei potuto piatire e non l’ho mai fatto. Per questa ragione non ho padroni e non li ho mai avuti. Ho fatto tutto da sola, costruendo la mia vita come un artigiano e ribaltando i tavoli quando quei tavoli non mi piacevano. Nella mia vita sono stata dentro a testa alta e ci sono stata fino in fondo».