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 2025  febbraio 08 Sabato calendario

La struttura urbana degli insediamenti greci

La celebrazione dei 2500 anni dalla fondazione di Neapolis, datata, secondo alcuni il 21 dicembre 475 a.C., è l’occasione per allargare la visuale e introdurre un tema, quello del ruolo dei migranti che, a partire dall’VIII sec. a C., lasciarono la Grecia per vivere altrove. Anche Neapolis, infatti, è uno di quegli insediamenti che abbiamo sempre, impropriamente, chiamato colonie, benché non si trattasse di imprese militari. Erano città nuove, costruite da gruppi di persone che partivano per cercare altrove fortuna, casa e patria. Le loro fondazioni si chiamavano apoikia, da apo-oikia, la casa lontano o lontano da casa, ma anche la patria lontana, perché oikia significava anche patria.
Come di recente ho ipotizzato in due studi – L’invenzione della casa, Christian Marinotti edizioni e L’ordine domestico della polis, Clean edizioni – sarebbero stati proprio quei migranti a costruire la Grecia fuori dalla Grecia e a incarnare la dolorosa tensione all’eguaglianza mostrando qualcosa di specifico e diverso sull’idea e la prassi della democrazia, e insegnando al mondo come si fanno le città. Avrebbero inventato loro la casa per tutti, la casa urbana aggregabile, delineando quell’ordine capace di costruire la comunità politica e, ad un tempo, lo spazio fisico che la accoglie, che diverrà, paradossalmente, modello per la città europea.
I migranti partivano dalla Grecia verso terre lontane con imprese che, allora come oggi, erano piene di rischi e paura, al seguito di un fondatore, poi venerato come eroe nella nuova città; si mettevano in mare per le ragioni più diverse: perché esuli, sconfitti nelle frequenti guerre civili che animavano la «partecipazione democratica», o per avere più figli, o per voglia di cambiamento o per ragioni economiche.
Inizialmente erano semplici empori commerciali, ma col tempo partivano per fondare vere a proprie città: il movimento inarrestabile di questi migranti consentì loro di sperimentare di continuo tecniche di costruzione urbana e perfezionarle. Nel giro di poche generazioni infatti, da queste fondazioni spesso partivano di nuovo per crearne un’altra e da Cuma vennero infatti i fondatori di Neapolis. Lo stesso accadde a Mégara Hyblaea, del 728 a.C. in Sicilia, la più antica di cui si possano studiare in Italia i resti perché non più abitata: da lì partirono, appena un secolo dopo, nel 627 a. C. per fondare Selinunte, una delle prime città greche dal chiaro impianto regolare. Ma anche molte altre – tra cui Agrigento, Paestum, Himera, Casmene, Camarina – furono fondate con quell’impianto regolare che abbiamo continuato a chiamare ippodameo dal nome di Ippodamo da Mileto, senza curarci troppo del fatto che Ippodamo nacque dopo.
Qual è dunque il principio di quell’ordine?
Ci dicono gli archeologi che i greci antichi non conoscevano il concetto di isolato – la parte più piccola di suolo circondata da strade – e dunque inizialmente non seguivano un’idea di trama viaria e un disegno generale della costruzione. La prima operazione immediata e delicata era la divisione e attribuzione della nuova terra, per garantire a tutti stessi diritti (isonomia) e stessa quantità di terra (isomoiria). Il canone usato era l’oikopedon, la parte di suolo destinata alla casa: ritagliavano sul terreno particelle uguali, affiancate l’una all’altra e raggruppate in due file divise da uno stretto canale per l’acqua, e le stendevano secondo lunghe strisce, chiamate poi strigas dai latini, la cui lunghezza varia ma il cui spessore si consoliderà col tempo nei 35 metri già presenti ad Agrigento e Paestum, ed ancora visibili anche a Neapolis. Nelle sequenze di oikopeda prenderà forma la casa dentro un muro cieco, che ricorre poi in tutta la storia della città, da quella antica di Pompei, a quella medievale, a quella dei maestri del Novecento Mies van der Rohe e Hilberseimer, fino a oggi con Campo Baeza a Siza.
La casa dentro un muro cieco diventa casa urbana per eccellenza, capace di aggregare in una dimensione comunitaria le diverse «ciascunità» preservandone il carattere intimo; compattandosi forma i tessuti urbani, tenuti insieme da trame stradali, parole che evocano l’antica arte femminile della tessitura e l’abilità nel tenere insieme e con pazienza molti fili, secondo un disegno. Ma è la presenza di un’idea di casa che permette al disegno urbano di sottrarsi agli arbitri del mercato e del potere, e all’architettura di definire una metrica spaziale rispondente a una vita quotidiana non alienata, che guidi la costruzione della città verso uno spazio in cui si desideri ancora abitare e abiti ancora il desiderio.