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 2025  febbraio 08 Sabato calendario

Luigi Albertini, estromesso dal Corriere da Mussolini

La nostra famiglia si è fondata su un trauma: la perdita della libertà di stampa in Italia. Cento anni fa mio nonno Luigi Albertini è stato estromesso dal Corriere per un ordine di Mussolini eseguito dai fratelli Crespi proprietari della maggioranza delle quote – Albertini era il principale proprietario di minoranza —, tradendo le firme sul contratto di società grazie a un cavillo giuridico. L’anno prima l’altro mio nonno, Francesco Carandini, ha perso la prefettura di Verona per essersi opposto alle squadracce. Quale lascito morale di libertà!
Ucciso professionalmente, Luigi (chiamato in casa Gigio) si è dedicato a studiare il suo passato producendo opere come L’origine della guerra del 1914 in tre volumi. Così lui, sua moglie Piera (figlia di Giuseppe Giacosa) e i figli Elena e Leonardo hanno lasciato la casa in piazza Castello 21: Milano era diventata per loro invivibile: le amiche di Elena non la salutavano più… Si sono rifugiati a Roma, sul Quirinale, che Luigi da senatore a vita sovente frequentava. Nel ’26 Albertini ha comprato la terra di Torre in Pietra per bonificarla – grande opera sociale – ed Elena si è sposata con Nicolò Carandini. Undici anni dopo nascevo io, quarto figlio, diventato presto consapevole che dovevamo tutto a quel trauma.
Nonno Francesco era barbuto, bello, ottimo prefetto e umanista. Discendeva da un nobile di Modena che al patrimonio aveva preferito la giovane borghese che amava. In armonia con il Romanticismo, Francesco era – con i Giacosa, D’Andrade, Avondo e Pastoris – un appassionato dei castelli della Valle d’Aosta e della Vecchia Ivrea, titolo di una sua corposa opera (da bambino sapevo la medievaleggiante Partita a scacchi a memoria). Fra l’altro, il fratello della madre di Francesco, Elisa Realis, sarebbe stato il vero padre di Camillo Olivetti (come ho saputo da fonte olivettiana). Eppure nulla era più lontano da lui dell’industrialismo: acquarellista, grafico (famosi gli ex libris, tra i quali quello di Albertini) e amante di monumenti. Suo figlio maggiore, Federico, ottimo pittore, quando arrivava in villa Albertini presso Ivrea con sua moglie – sorella di Albertini – preferiva conversare in garage con gli autisti, al contrario del figlio minore, Nicolò, che ha sposato Elena ed è andato alla scuola di liberalismo del suocero.
Nonno Luigi era l’opposto di Francesco: protagonista dell’industrialismo italiano nel primo quarto del ’900: aveva gestito e diretto il Corriere trasformandolo nel massimo e più diffuso giornale nazionale. Perfettamente e interamente rasato, lucente più che bello (nessuna mosca doveva sfiorargli il capo), era soprattutto gravis, virtù scomparsa. Aveva subito traumi: da giovane il fallimento del padre, grande uomo di affari di Ancona; da cinquantenne la perdita del«Corriere; infine il «cane nero», come Churchill chiamava la bestia depressiva, da domare. L’aristocratico Max Majnoni d’Intignano, cenando da Albertini sul Quirinale, aveva creduto di trovarsi in casa di un nuovo ricco, ma lui tale non era: aveva perso le cose di famiglia per il fallimento e aveva dovuto rifar fortuna.
Da bambino passavo le estati tra Gressoney – dove è ancora la casa dello zio Alberto Albertini (progettata da Achille Majnoni) – e a Colleretto-Parella, a 7 chilometri da Ivrea. Qui erano la sontuosa villa nel grande parco di nonno Gigio, progettata da Luca Beltrami, e la casa affettuosa con giardino di nonno Francesco, con balcone alla canavesana. Tra queste due abitazioni era un bosco, che la sera attraversavo con paura, intuendo l’abisso di tempo ch’esso rappresentava: il precapitalismo dei Carandini e il capitalismo degli Albertini.
Da ragazzino percepivo questi mondi come contrapposti: quello Carandini poetico, artistico e alla mano; quello Albertini altero, disciplinato, organizzato come un’azienda; irraggiungibile ma reso umano da generosi benefici e dalla passione per la musica: nella villa era lo studio di Arrigo Boito – donato poi al Conservatorio di Parma – dove ho suonato il primo Bach e dove ammiravo la mano in gesso di Eleonora Duse. Con Marta mia cugina, che unisce felicemente il sangue Albertini a quello Tolstoj, giocavamo agli indiani con armi dipinte dagli artisti delle copertine de La Lettura. Nella vita ho cercato di fondere questi nonni nella mia archeologia, che un ex allievo poco riconoscente ma acuto ha definito «ditta». Infatti la più vera ricerca sul campo si pratica in una scuola collettiva, non solo a tu per tu.
Veniva spontaneo amare i Carandini, dai pochi soldi. Più arduo era amare gli Albertini, nuovamente facoltosi, perché per elevarsi a livello di Luigi bisognava trascendersi (rispetto alla mia educazione, il collegio inglese nel ’46 mi è parso una piacevolezza). In lui vi era solo la fortuna con i suoi sbalzi da sfidare con merito imprenditoriale e sensibilità storico-politica implacabilmente perseguiti come sacro dovere lavorativo e civico, nella consapevolezza che una famiglia borghese durava al massimo quattro generazioni. Così io mi sono considerato L’ultimo della classe… Di borghesi critici – alla Pirelli – non ve ne sono più e oggi misuriamo la portata dell’irreversibile evento.
Ho scavato a fondo da ragazzino nella villa Albertini, copiosa di cose e di carte. Mie nemiche erano le chiavi, che un pomeriggio ho sottratto e celato in una fossa – adeguatamente redarguito da quegli iper-pudichi. Ero alla ricerca dell’imponente facitore di quel mondo… Così ho imparato a trarre storie da architetture e arredi, che tutto dicono. Sfogliavo il Corriere dei piccoli, scorrevo le fotografie, ma il vero ponte tra nonno e nipote era Elena, anche lei dedita a una grande opera – gli Albertini come Sisifi —: l’immane diario, ora nell’Archivio dello Stato a Roma, solo in parte edito. È stata lei a presentarmi l’inquieto ’900 e il tagliente e lucido temperamento Albertini tramutato in stile di vita, per formarmi a una civiltà di cui ho constatato presto l’agonia nel godereccio ed esibizionista ceto medio.
Quando nel ’41 mia madre è comparsa nella mia stanza – abitavamo a Roma sotto Albertini – e mi ha detto: «Nonno Gigio è mancato» era come se fosse scomparso un fondatore. Allora sono stato assalito dai ricordi: l’autista Arturo Capocci che mi proiettava nell’anticamera del nonno un film di Topolino e lui che mi faceva salire sulle spalle cantando un’opera e giravamo nel salone a doppia altezza sotto il vistoso lampadario – il nuovo proprietario lo salverà – e tra quadri bellissimi che poco consideravo. In quel contatto amoroso con il suo corpo vinto mi sono caricato dell’ultima sua energia, che ancora ferve in me: furor dominato dall’ordine, emozione piegata al buon senso, culto del lavoro mitigato dalla musica, malinconia alternata a letizia. E io ancora suono per ingentilire la gravitas: oltre che peso, talismano per l’intrapresa vitale (etica protestante tramontata).
La sorte ha voluto che da vecchio fossi nominato due volte presidente del Fai e frequentassi per otto anni Giulia Maria Crespi nel palazzo in corso Venezia, a Milano, per me contraltare del Quirinale. Mai mi sedevo su una poltrona, benché invitato a farlo dalla illuminata signora: «Era quella di mio padre…». Lei tuttavia ammirava Albertini, tanto che un giorno mi ha imposto: «Faccia come lui al Corriere: porti gl’iscritti del Fai a un milione!». Così due famiglie italiane si sono riavvicinate – dopo 88 anni —, pur negli avversi ricordi. La fondatrice del Fai – fiera progressista – era anche lei figlia della civiltà industriale (somigliava a mia madre per alcuni aspetti, alcuni anche sgradevoli e tipici dell’élite alto-borghese). Oltre a riconfigurare in senso contestuale la cultura del Fai (grazie alla componente Carandini), ho promosso una sua riorganizzazione (grazie alla componente Albertini), che Marco Magnifico è riuscito finalmente a portare in porto. Ora il consiglio di amministrazione nomina, oltre a un direttore generale, un direttore culturale, sancendo così pienamente l’autorevolezza bifronte del Fondo che felicemente sta compiendo i cinquant’anni.