La Lettura, 19 gennaio 2025
La prima mostra italiana dedicata a Vilhelm Hammershøi
Discendente del Vermeer della Ragazza con l’orecchino di perla (1660 circa) e della Donna con brocca d’acqua (1662 circa)? Precursore dell’Hopper di Automat (1927) e di Morning Sun (1952)? Anticipatore di quell’Ólafur Elíasson (anche lui danese sia pure di origini islandesi) che nel 1991 aveva realizzato l’installazione I grew up in solitude and silence (una candela che brucia lentamente al centro di uno specchio) dove il silenzio e la solitudine sono, proprio come per Vermeer e Hopper, elementi essenziali?
Tutto questo è Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864-1916), grande protagonista — insieme a un gruppo di pittori che a lui si sono nel tempo ispirati — della mostra Hammershøi e i pittori del silenzio (curata da Paolo Bolpagni) in programma dal 21 febbraio al 29 giugno a Palazzo Roverella di Rovigo. Alla ricerca delle possibili connessioni proprio con Vermeer, Hopper, Elíasson, ma anche con Magritte, Casorati, Munch e con un altro artista danese (stavolta contemporaneo, stavolta di origine vietnamita, Danh Vo) la rassegna di Rovigo, la più grande mai realizzata in Italia, propone un centinaio di lavori che testimoniano, in primo luogo, la grande attualità del lavoro di Hammershøi. «La mostra — spiega il curatore — non si propone semplicemente di offrire un’occasione per conoscere da vicino le opere di un pittore straordinario, riconoscibile per l’intimismo minimalista dei suoi interni e per l’atmosfera inquieta che si sprigiona da un apparente rigorismo, ma di scandagliare filoni di ricerca rimasti pressoché inesplorati». Che avrebbero conquistato molti artisti europei coevi di Hammershøi, i quali con sfumature diverse praticarono una poetica basata sui temi del silenzio, della solitudine, delle «città morte», dei «paesaggi dell’anima». Come i francesi Émile-René Ménard, Henri Duhem, Lucien Lévy-Dhurmer, Charles Marie Dulac, Henri Le Sidaner, Charles Lacoste e Alphonse Osbert; i belgi Fernand Khnopff, Georges Le Brun e William Degouve de Nuncques; gli olandesi Jozef Israëls e Bernard Blommers; la svedese Tyra Kleen; i danesi Peter Vilhelm Ilsted, Carl Holsøe e Svend Hammershøi.
Particolare e profondissimo fu il rapporto tra Hammershøi e l’Italia: l’ammirazione per Giotto, Beato Angelico, Masolino, Masaccio, Luca Signorelli, Desiderio da Settignano; i viaggi (testimoniati in mostra dall’Interno della chiesa di Santo Stefano Rotondo a Roma del 1902 prestato dal Kunstmuseum Brandts di Odense, Danimarca, unica testimonianza pittorica dei tour italiani di Hammershøi); l’influenza su artisti a lui contemporanei, ancora in buona parte da riscoprire, come Oscar Ghiglia, Vittore Grubicy de Dragon, Mario de Maria, Giulio Aristide Sartorio, Vittorio Grassi, Orazio Amato, Umberto Moggioli, Domenico Baccarini, Giuseppe Ugonia, Francesco Vitalini, Mario Reviglione. Una relazione che, precisa Bolpagni, funzionò in senso biunivoco, coinvolgendo i pittori ma anche critici come Ugo Ojetti ed Emilio Cecchi che da subito si interessarono al lavoro di Hammershøi.
Il silenzio e la solitudine sono dunque gli elementi che caratterizzano l’opera di Hammershøi, il più grande pittore danese della sua epoca, protagonista appartato ma fondamentale dell’arte di fine Ottocento e del primo quindicennio del XX secolo. Sono il silenzio e la solitudine degli interni, la maggior parte dei quali rappresentazione «senza pietà» degli appartamenti della Strandgade 30 di Copenaghen (dove visse con la moglie Ida dal 1898 al 1909) e della Strandgade 25 (dove visse dal 1913 al 1916): ambienti domestici, in apparenza ordinati e tranquilli, irrimediabilmente claustrofobici, che sotto la superficie della banalità quotidiana sembrano alludere a drammi segreti o tragedie incombenti. Ma sono anche il silenzio e la solitudine messi in scena dalle donne di Hammershøi, siano esse — proprio alla maniera di Vermeer — borghesi benestanti o domestiche popolane. Un silenzio e una solitudine torbidi, inquietanti, enigmatici, privi di ogni serenità. Con l’universo femminile Hammershoi intrattenne un rapporto quantomeno problematico, tanto che pur sposatosi con la sua modella prediletta Ida Ilsted (in seguito colpita da una grave malattia mentale) l’artista manterrà un rapporto strettissimo, quasi simbiotico, con la madre, tornando spesso a dormire da lei. Non a caso un altro grande danese, Carl Theodor Dreyer (1889-1968), il regista della Passione di Giovanna d’Arco (1928) e di Ordet (1955), definirà la pittura di Hammershøi (alla sua epoca amato e apprezzato da Emil Nolde e Rainer Maria Rilke) «nevrastenica».
Quella di Hammershøi è una pittura che non utilizza colori vivaci, tranne che nei suoi primissimi lavori accademici, optando sempre per una tavolozza limitata composta da grigi, da gialli desaturati, verdi e altre tonalità scure, che sottolineano l’isolamento dei personaggi. Una scelta cromatica che appare evidente nelle quattro sezioni che compongono la mostra di Palazzo Roverella, ognuna delle quali analizza i soggetti più frequentati dall’artista: gli interni, le vedute architettoniche quasi sempre prive di presenze umane, i ritratti, i paesaggi. Un universo sempre più affascinante anche in termini economici: Interno. La sala della muscia, Strandgade 30 (un olio di tela del 1907, centimetri 68,5 x 59,5) è stato venduto all’asta nel maggio 2023, da Sotheby’s a New York, per 9,1 milioni di dollari, record dell’artista. Un record che rimanda a quella casa di famiglia che lo ha sempre ispirato, una casa che rappresenta il suo palcoscenico privilegiato, dove tutto è perfettamente illuminato, dove ogni cosa è al suo posto, scelta con cura, dove lo stesso Hammershøi fece dipingere le pareti di un grigio freddo, che doveva assorbire e riflettere al meglio la luce nordica che l’artista cercò sempre di catturare.
Hammershøi, la cui notorietà si consolidò negli anni Ottanta del XIX secolo, è senza dubbio l’inventore del «ritratto di spalle», quel ritratto più tardi tanto amato da Domenico Gnoli (1933-1970) in opere come Busto femminile di dorso (1965), Ricciolo (1969), Curly red hair (1969), Treccia (1969). Un dipinto come Hvile/Riposo (1905), oggi nella collezione del Musée d’Orsay di Parigi, lo conferma alla perfezione: la donna seduta colpisce per l’indifferenza che mostra nei confronti di chi la sta contemplando. Al personaggio silenzioso corrisponde ancora una volta una gamma molto raffinata di grigi e di marroni, che accentua la profonda sensibilità del pittore per quelle atmosfere contrassegnate da un rigore in qualche modo protestante. Anche se poi, come sempre accade per Hammershøi, non si tratta solo di un’allegoria della solitudine e della tragicità umana. Il vero soggetto scelto da Hammershøi potrebbe essere infatti la nuca, la parte del corpo più impudica nell’immaginario orientale. Mentre la scollatura della camicetta che lascia intravedere il candido incarnato delle spalle (facendo da contrappunto alla coppa a forma di fiore posata sul mobile) sembrano suggerire ancora una volta qualcosa di inquietante, ma anche di bellissimo e sorprendente. Perché, lo diceva anche una famosa canzone (era il Festival di Sanremo e correva l’anno 1968), «ci sono cose in un silenzio che non mi aspettavo mai».