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 2025  febbraio 07 Venerdì calendario

Mujica, poeta, ex operaio, ex monaco

Hugo Mujica ha vissuto mille esistenze: nato ad Avellaneda in Argentina nel 1942, è stato operaio in adolescenza e artista visivo al Greenwich Village di New York; ha passato sette anni nell’ordine dei monaci trappisti e in un’esperienza di totale silenzio; ha girovagato per il mondo e scritto saggi su Heidegger, Trakl, Francis Bacon. È oggi uno dei maggiori poeti sudamericani: con E tutto nomina. Poesie scelte (1983-2023) (a cura di Zingonia Zingone, Interno Poesia, pagine 304, euro 19,00) abbiamo un’ampia testimonianza dei suoi versi gnomici ed essenziali, «sfuggenti come tramonti e immobili come bottiglie di Morandi», ha osservato Francesca Serragnoli nella prefazione alla raccolta. «come / un cieco che chiama luce / il tuono // il mio dire / quello che il silenzio nomina».
Qual è stato il suo rapporto con Allen Ginsberg e, in generale, con il Greenwich Village?
«Sono arrivato a New York quando avevo 19 anni e me ne sono andato dieci anni dopo. Lì, nei famosi anni ’60, sono diventato uomo, ho forgiato la mia persona in un’utopia in cui gli ideali di una vita creativa sembravano possibili, la libertà poteva essere per ogni cosa e a ciascuno la sua, indipendentemente dal colore della pelle... Forse non si sono realizzati, quei sogni, ma a volte sapere che si andrà a perdere, e continuare a farlo, è proprio ciò che rende grande la lotta e dà dignità a chi combatte. Penso sempre alla mia vita partendo dai linguaggi: vivere dove sono nato è stato ricevere la cosiddetta “lingua madre”, lo spagnolo nel mio caso, e con la lingua i mandati e ciò che ci si aspettava da me, da cui credo di essere fuggito verso il mio decennio newyorkese: lì ho dovuto imparare l’inglese, conquistare un’altra lingua, la lingua nuova di un giovane che stava, al contempo, iniziando a conquistare la propria vita, a scegliere; e poi, nei sette anni trascorsi come monaco trappista, ho abbracciato quell’altro linguaggio, il silenzio e, con esso, la trascendenza e la poesia... Per fortuna e per dono, non si finisce mai di nascere. Ginsberg è stato la cosa più importante per me, guardando ora indietro a ciò che rimane del passato, colui che mi presentò Swami Satchitananda, che è stato la mia porta verso qualcosa di più di questo mondo, ma nel mondo... E il Village è stato una comunità creativa, dove la vita era un’esperienza del vivere e non la grigia routine di ripetere lo stesso giorno ogni giorno; è stato uno dei miei posti nel mondo, non nel senso di stare ma di abitare... Tutto questo, ora che lo scrivo, mi riempie l’intero corpo di gratitudine...». 
E qual è stata, quindi, la sua esperienza di monaco trappista?
«Le rispondo con un verso di una poesia che ho scritto molto tempo fa: “nel silenzio il silenzio parla”, e aggiungo un altro verso, nel quale, molto dopo credo di aver approfondito e sperimentato il precedente: “nel silenzio dio non parla né tace, nel silenzio il silenzio è dio”. La mia esperienza, e sembra contraddittorio, non è stata con il silenzio: è stata arrivare a essere un discepolo dell’ascolto... Da novizio, come parte della mia formazione, poco dopo il mio ingresso la mia guida spirituale mi ha detto: “Adesso ogni pomeriggio, per quattro ore, andrai nel bosco”. “Per cosa?”, gli ho chiesto. “Per niente”, è stata la risposta. “Ah, – ha aggiunto – non pregare, perché pregare è continuare a fare calcoli...”. Questo è stato il mio grande allenamento durante tutto quel tempo: stare senza aver bisogno di fare nulla per giustificare quello stare, e quindi lasciare che le cose siano in sé stesse e non per me. So che sembra poco religioso, ma col tempo ho imparato che era la religione nella sua pienezza: arrivare a spogliarsi, «nudi dinnanzi al nudo», scriveva un solitario del deserto, nudità, che per me è la stessa parola di libertà, non avere nulla con cui tentare di comprare Dio, lasciare che sia Lui la manifestazione della sua gratuità, della sua stessa libertà che è il suo creare. Più tardi, in quella gratitudine, mi è arrivato il rispondere: nel terzo anno in cui ero lì, sono nato alla poesia, cioè ho imparato a dare voce a ciò che cominciavo a sentire, ho imparato ciò che cerco di fare ancora: accogliere il brusio della vita, accordarmici... C’è una mia poesia che dice “lasciare che la vita ci racconti / ciò che impara di sé vivendoci”: credo che tutto nasca per rivelarci il mistero di nascere da tutto ciò che è. Un po’ ereticamente mi piace dire che Dio né esiste né non esiste: Dio nasce, è il suo non smettere di farlo, di creare sé stesso nel creare noi. Penso all’eterniche tà non come vivere eternamente ma come eternamente nascere».
In E tutto nomina è evidente una forte accensione mistica, un contatto tra poesia e preghiera.
«Nella sete d’acqua che ha la radice, è già insista quell’altra sete: quella della luce in cui fiorire e donarsi. Tutto pulsa verso la luce, esplicitamente o tacitamente, non è l’atto in sé, non è ciò che si fa ma da dove e verso dove lo si fa che può essere chiamato preghiera o semplicemente scrittura, non sono nemmeno le parole, è se ci limitiamo a respirare aria con il corpo o se respiriamo anche luce con l’anima... E da lì, dal vivere, non ci sono molte divisioni: credo che ci siano persone, e molte, la cui preghiera è semplicemente dimenticare sé stessi, e altre che possano pregare esplicitamente, ma, come direbbe il mio maestro di noviziato, solo per obbedire o per cercare di corrompere Dio. Misticismo è una parola tanto ambigua quanto pretenziosa ma, se dovessi definirla, direi è la possibilità di stare di fronte alla realtà senza cercarvi il mio riflesso, lasciandola essere e, inoltre, senza portarla verso di me, e se a questo aggiungo il fatto di poterla nominare senza nominare me stesso in ciò che dico, allora lì scrivere e pregare sono la stessa cosa: quando uno non si mette in mezzo, quando l’io non stacca questo da quello, ciò che è mio da ciò che è tuo, niente si separa da niente... Tutto è uno, tutto canta lo stesso mistero che è questo vivere».
Le sue liriche – poste sempre in fondo alla pagina – sono ricche di versi “a scalino”.
«È qualcosa che mi viene imposto quando le scrivo, ma non so a cosa risponda, non posso scriverle senza, al contempo, collocare le parole, riga per riga, in una certa spazialità. Penso che in parte sia una relazione con il lettore, una specie di punteggiatura non grammaticale, fatta soprattutto di spazi... Ritengo sia un modo di fargli vedere la pagina e non solo le lettere, di vedere ciò che non guarda ma che è lì... C’è un aforisma di Nietzsche per me fondamentale: “Di tutto ciò che è stato scritto, amo solo ciò che è stato scritto col proprio sangue. Scrivi con il sangue e imparerai che il sangue è spirito”. Credo profondamente che tutto sia uno, ma non tutto è uguale: ognuno è unico».
(Si ringrazia Zingonia Zingone per la gentile traduzione delle risposte di Hugo Mujica)