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 2025  febbraio 07 Venerdì calendario

Il traduttore Arpaia teme che il suo lavoro sparirà

Con un reading del traduttore Marco Rossari che legge Sotto il vulcano di Malcolm Lowry si apre questa sera al Circolo dei Lettori di Torino la seconda edizione di Alias, il simposio dedicato al mestiere della traduzione. Una due giorni di incontri e lezioni, organizzata da Scuola del libro e Fondazione Circolo dei lettori, che vedrà protagonisti i traduttori italiani di autori come McEwan, Ernaux e Kafka. Ad aprire la giornata di domani una tavola rotonda che avrà tra gli ospiti lo scrittore Bruno Arpaia, traduttore di Gabriel Garcia Marquez.Arpaia, partiamo dal titolo dell’edizione di quest’anno: “Tradurre è scrivere”?«Con certi limiti direi di sì. Devi accettare che c’è una disparità tra la tua voce e quella dell’autore che stai traducendo. Devi essere umile ma anche inventivo. Dunque la traduzione è anche scrivere perché non è solo una trasposizione ma devi inventare, esplorare i confini della tua lingua per rendere l’intenzione più vicina a quella dell’autore».In questo senso quali sono le difficoltà nel confrontarsi con un gigante come Gabriel García Marquez?«Per me Marquez è un caso a parte perché sono diventato scrittore attraverso Cent’anni di solitudine. Quel libro significò per me capire che il mondo non era in bianco e nero e poteva essere a colori. L’ho letto quindici volte. Tutti i vizi e i vezzi di Marquez li ho introiettati. Per cui non ho difficoltà a tradurlo, fa parte di me».La lingua cambia nel tempo. È più difficile tradurre gli autori del passato o di oggi?«Penso sia più difficile tradurre quelli del passato. Certi giri di frase e le complessità sintattiche stanno via via scomparendo. Si prediligono sempre più le frasi brevi e il lessico ha introiettato quello del parlato. In generale però più gli autori scrivono bene più è facile tradurli anche quando sono complessi».La lingua si sta dunque semplificando?«In un certo senso sì. Quando leggevo Calvino a mio figlio piccolo dovevo semplificare quella complessità sintattica. Con un libro di oggi probabilmente non dovrei farlo. Certo non è il caso di altri autori di oggi che traduco come Aramburu, Cercas o Arriaga»A proposito di Guillermo Arriaga. È da poco uscito il suo ultimo romanzo Strane da lei tradotto. È stato difficile?«Molto. È stato un caso in cui per la prima volta l’autore ha messo dei paletti ai traduttori. Non si potevano usare avverbi che terminavano in “mente”, parole che finissero in “ché” e termini entrati in uso dopo il 1780, anno di ambientazione del libro. È stato complicatissimo».Cosa pensa della ritraduzione di certi autori come Roal Dahl o Agatha Christie per renderli più politically correct?«Sono assolutamente contrario. La letteratura è entrare nelle vite degli altri. Parlare come parlano gli altri. Uno scrittore non parla mai a partire da sé. Ogni romanzo parla a partire da un noi. E in questo noi c’è di tutto. La letteratura è questo. Se togli la possibilità di entrare anche nel male la letteratura non esiste più».Dunque un libro come quello di Marquez: Memoria delle mie puttane tristi oggi non verrebbe pubblicato con quel titolo?«Probabilmente oggi qualcuno direbbe di no perché non moralmente corretto. Penso sia molto talebano».L’intelligenza artificiale è una minaccia per il mestiere di traduttore?«Penso di sì. Se devo tradurre un nuovo libro di Arriaga e do in pasto all’IA tutte le mie vecchie traduzioni, lei tradurrà Arriaga con il mio stile. Prima o poi si arriverà a questo. Considerando poi le difficoltà economiche delle case editrici c’è da aspettarsi una espansione dell’IA».Dunque il mestiere di traduttore alla lunga sparirà?«Temo proprio di sì».