la Repubblica, 7 febbraio 2025
Cos’è Guantanamo
Esistono luoghi condannati a non affrancarsi dalla loro maledizione. La baia di Guantanamo, estremo lembo meridionale dell’isola di Cuba, è uno di questi. Qui, per vent’anni, uomini che parlavano arabo hanno vestito una tuta arancione. Oggi, parlano spagnolo e ne indossano una grigia.Ma identici sono gli schiavettoni che li legano mentre escono dalla pancia dell’aereo in cui sono stati infilati di notte, ignorando la loro destinazione. Identico è l’uomo che l’ha ordinato: il presidente degli Stati Uniti. Identica la dannazione in cui sono appena precipitati.Arrivai a Guantanamo per Repubblica una prima volta nell’inverno 2002, scortato dai marines, insieme a un pool di giornalisti internazionali. Accolto da un cartello della marina militare americana – “Benvenuto nella perla delle Antille” – da una lingua rovente di caldo secco che bruciava i vestiti e la pelle e da gigantesche iguane che ingombravano la fettuccia di asfalto che univa la pista di atterraggio della base navale al luogo demoniaco costruito in sole 96 ore, tra il 6 e il 10 gennaio di quell’anno, per mostrare al mondo la collera del gigante americano ferito a morte l’11 settembre 2001.Lo avevano battezzato X-ray. E se ne stava appollaiato proprio sotto il crinale di confine con la Cuba di Fidel. Era un rettangolo di reti elettrificate e filo spinato al centro del quale, come animali in batteria, chiusi in decine di stie in acciaio temperato aperte su tutti i lati, uomini in tuta arancione si offrivano allo sguardo di chi non potevano vedere perché resi ciechi da occhiali neri da saldatore. Non saprei dire se fu quella vista a prendermi per prima lo stomaco o il fetore indescrivibile di sudore, feci e urina che l’umidità dell’aria spingeva oltre il filo spinato.«Così l’America punisce gli “Enemy combatants”, gli “enemy aliens”» – i combattenti nemici, i nemici alieni – continuava a ripetermi l’ufficiale dei marines che mi accompagnava. Così l’America perdeva se stessa, pensavo osservando un prigioniero defecare nella sua stia con una coperta sopra la testa, come se nascondersi allo sguardo degli altri potesse convincerlo di non essere visto.Ritornai a Guantanamo nel 2003 quando l’America aveva ormai scoperto che la “war on terror” dichiarata all’islamismo jihadista sarebbe stata una drammatica traversata nel deserto. Non solo quello afghano o iracheno. E, osservando dall’aereo quella baia dalle spiagge bianchissime e le acque cristalline blu cobalto, tornai ad avvertire la vertigine che provocava la discesa in un angolo di paradiso al centro del quale era stato concepito l’inferno. Anche perché sarebbe stato quello l’anno in cui i prigionieri sull’isola sarebbero saliti a 700, un picco mai più raggiunto. Il campo X-ray era stato smantellato a beneficio di un’evoluzione dell’ingegneria concentrazionaria. Una struttura esagonale in cemento armato, dal nome “Camp Delta”. Con celle di isolamento dall’aria condizionata, intercapedini chiuse da porte blindate e mura completamente insonorizzate, necessarie ad assorbire le urla e le implorazioni dei prigionieri. Ogni ingranaggio della meticolosa macchina dell’afflizione veniva illustrato come fosse la prova in grado di negarla. Dal contenuto calorico delle razioni di cibo per i prigionieri, alla consunta biblioteca di volumi e dvd in lingua inglese e araba, alle statistiche sull’incidenza dei disturbi psichiatrici negli “ospiti”, alle infradito da calzare nelle docce.Donald Rumsfeld (allora segretario alla Difesa Usa) aveva reimmaginato il format della vendetta americana da esibire all’opinione pubblica domestica e internazionale secondo canoni di pulizia cromatica ed estetica che avrebbero dovuto, nelle intenzioni della Casa Bianca, modificare la percezione di quel luogo dove l’umanità e il diritto avevano capitolato. Il resto – pensavano – lo avrebbe fatto il tempo. Rendendo tollerabile l’intollerabile. Come in fondo accadeva alle seimila anime ospiti della base. Mogli e figli dei marinai di stanza nella baia che gli Stati Uniti avevano strappato a Cuba nel 1903 per un piatto di lenticchie (un canone di affitto di 4 mila dollari l’anno che avrebbero smesso di pagare nel 1960). Se quelle famiglie nelle loro casette bianche waterfront, nel loro jogging della mattina, nelle risate al McDonald (l’unico in tutta Cuba), nella pesca a strascico del week-end con la birra in ghiaccio e le note di Radio Gtmo (“Rocking in Fidel’s backyard”, facciamo rock nel cortile di Fidel) potevano sfiorare, ignorare e alla fine dimenticare l’inferno dei dannati in tuta arancione a meno di un chilometro di distanza, perché non avrebbe potuto farlo il resto del mondo li fuori?Con il mondo è andata diversamente, come oggi sappiamo.Eppure la baia prigione non ha mai chiuso i suoi cancelli di filo spinato.Anche quando a prometterlo era stato Obama. Anche quando sull’isola di dannati ne erano rimasti soltanto 50. Perché il demone della vendetta, la condanna all’inferno di chi viene spedito in un paradiso era in fondo rimasta una promessa di ferocia eterna. Che oggi torna a cuocere tra il sole e le iguane i nuovi “aliens”, i nuovi “nemici” dell’America.