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 2025  febbraio 07 Venerdì calendario

Washington in subbuglio

I democratici a Washington stanno cercando di capire come salvare il loro partito. Lunedì sono usciti a protestare davanti alla sede di UsAid, l’agenzia per gli aiuti all’estero creata da John F. Kennedy e smantellata da Elon Musk. Ma due ex strateghi di Obama, David Axelrod e Rahm Emanuel, hanno consigliato di smetterla: non funziona. Certo, la chiusura dell’agenzia sta avendo tragiche conseguenze per i programmi di salute e sviluppo nel mondo, ma protestare vuol dire «cadere nella trappola» di Trump, perché la maggioranza degli americani è favorevole a tagliare gli aiuti all’estero e molte istituzioni federali sono impopolari. Mercoledì anche il governatore della California Gavin Newsom ha mostrato d’essere pronto a cedere la leadership della resistenza, almeno per ora: ha incontrato Trump per 90 minuti nello Studio Ovale per chiedergli aiuto per gli incendi e non si è fatto vedere da noi giornalisti.
Dal suo insediamento due settimane fa, Trump va a mille all’ora e firma ordini esecutivi ogni giorno. Mercoledì, prima di vedere Newsom, ne ha approvato uno per bandire le atlete transgender dai team femminili e si è fatto fotografare circondato da ragazze e bambine felici. I democratici fanno fatica a organizzarsi dietro a un singolo tema. «Flood the zone» (inonda la zona) e «carpet bombing» (i bombardamenti a tappeto evocativi del Vietnam): sono le tattiche inaugurate dal’ex stratega Steve Bannon per fiaccare ogni resistenza. L’unica cosa su cui le critiche stanno passando è Musk, perché piace sempre meno ai repubblicani: secondo un sondaggio solo il 26% vuole che abbia «molta» influenza (il 43% un po’, il 17% nessuna).
Trump è instancabile, sembra ringiovanito. All’evento con le atlete, dopo aver avvistato in sala il deputato Ronny Jackson che in passato è stato il suo medico ma anche di Bush e di Obama, gli ha fatto confermare di essere il presidente più in salute dei tre.
«Tutta questa gente!» sbuffava un collega martedì sgomitando alla conferenza stampa congiunta di Trump e Netanyahu, dove 150 giornalisti stavano per lo più pigiati e in piedi nella East Room della Casa Bianca (troppo piccola? Trump ha detto che la trasformerà in una sala da ballo come a Mar-a-Lago). Lo spazio per i media di destra è aumentato (al Pentagono per esempio sono stati rimossi Nbc, New York Times, Npr e Politico per far spazio a New York Post, Breitbart e HuffPost in una nuova «rotazione») ma c’è anche più possibilità per tutti di accedere agli eventi e fare domande rispetto all’era Biden. Trump sceglie a caso nella calca di mani alzate: l’altro giorno ha dato la parola a una collega afghana, a cui ha risposto «Che accento bellissimo, ma non capisco che cosa dici».
Noi giornalisti siamo parte del gioco: «Nessuno sa se le persone facciano le notizie o le notizie facciano le persone», scriveva Gay Talese. Non è facile raccontare questa nuova «era Trump». Inseguendo le dichiarazioni quotidiane si viene contraddetti il giorno dopo o distratti. La scorsa settimana, dopo la collisione tra un aereo e un elicottero a Washington con la morte di 67 persone, Trump ha spostato il baricentro della discussione sulle politiche di inclusione e diversità di Biden e Obama. «Stava trollando tutti», ci ha detto un suo alleato, e c’è riuscito. Nel weekend ha annunciato i dazi per Messico e Canada, lunedì li ha disdetti. Martedì ha suggerito un trasferimento permanente dei palestinesi da Gaza, mercoledì la portavoce ha spiegato che sarà «temporaneo». Alla fine della giornata un giovane collega confessava: «Mi sento ubriaco».
Il disagio c’è anche tra i repubblicani. Sono divisi sui tagli alla spesa pubblica e questo sta rallentando i piani per ridurre le tasse e finanziare le espulsioni di immigrati illegali. Un alleato di Trump dell’ala «Maga» (estrema destra) ci spiega che anche i deputati più oltranzisti prevedono tagli troppo ridotti alla spesa. Anche la nuova proposta della Riviera di Gaza – che sia reale o una leva negoziale – ha suscitato qualche preoccupazione sia tra i repubblicani moderati che nell’ala Maga. Peggy Noonan, che aiutava a scrivere i discorsi del presidente Reagan, afferma sul Wall Street Journal che molti deputati, anche sostenitori di Trump, sono «fuori di sé dall’ansia». Per Noonan il ritorno di Trump è una rottura totale con il «vecchio ordine»: qualcosa di diverso, «più emotivo, tribale e viscerale» che forse capiremo solo in retrospettiva. Per capire quest’epoca bisogna tenere a mente che Trump ha saturato la cultura e permeato la coscienza americana.