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 2025  febbraio 06 Giovedì calendario

Le parole ricorrenti nelle canzoni di Sanremo

Sono mesi che ci si accapiglia sui testi dei rapper, sulla violenza e il razzismo, sulla questione femminile. Poi i testi del Festival di Sanremo vengono finalmente svelati. E rimettetevi comodi in poltrona, che nessuna novità si vede sotto il sole della Riviera: è sempre amore, è ancora amore. Letteralmente: le parole che ricorrono di più sono «ancora» (48 volte) e «amore» (46 volte, a cui aggiungere le 12 volte del verbo «amo»). E anche se la rima baciata viene accuratamente evitata, è anche un trionfo del «cuore», che viene citato 15 volte, che però diventano 29 con la variante napoletana «core» e addirittura 57 se ci mettiamo dentro anche tutti i «cuoricini» dei Coma Cose.Stando alle parole ricorrenti, pare rilevare del pessimismo nel «mai» che straccia il «sempre» (40 a 26). Così come il pianto nelle sue varie declinazioni «piangere», «piangi», «lacrima», vince sui sorrisi. Il morire è cantato più del vivere, il passato vince abbondantemente sul futuro, e il presente non esiste proprio. In compenso si è «insieme» 12 volte, molto più che «soli» (appena 4). «Dio» fa la sua apparizione 3 volte e 3 si parla di «paradiso», così il conto celeste è in vantaggio sulle 5 volte in cui è chiamato in causa l’«inferno».«Mamma» pareggia con «padre» 5 a 5, ma su tutte le parentele vincono i figli (9). Gender gap: «uomo» batte «donna» 5 a 4.Fin qui è un’analisi numerica, nulla più di un giochino, che però rimanda a una realtà sostanziale dei testi in gara: i temi sociali, la politica, le guerre, nulla di tutto questo troverà spazio sul palco dell’Ariston, tolte rarissime eccezioni. Sanremo è specchio della società? Attenti a rispondere sì, perché le possibilità sono due: la prima, innocua e autoassolutoria, che nella musica cerchiamo evasione; la seconda è che sì, il mondo è un brutto posto, ma a noi non ce ne frega nulla, almeno fin tanto che i problemi non sono i nostri.Dell’attualità c’è davvero poca roba: ci sono le periferie, quella romana in cui è immersa la storia cantata da Achille Lauro, un amore in mezzo al disagio, più sul pezzo Shablo con Guè, Joshua e Tormento «chiuso tra cemento e smog, qui la gente muore e vive senza soldi e alternative». Brunori Sas è cresciuto «in una terra crudele», ma il tema è solo sfiorato, quello portante è l’insicurezza di un neo papà, speculare all’amore di Cristicchi per la mamma che invecchia. Ma il pronome «io» che compare ben 80 volte e surclassa il «noi» (solo 26) è indicatore attendibile dell’ego ipertrofico, del dramma privato che ha la meglio su ogni altro tema: Clara è in cerca della versione migliore di sé, Michielin canta la fine di un amore, Irama un amore viscerale, sono tutti tristissimi, o quasi: Gabbani, beato lui sempre allegro, celebra la vita, dice. E pure i The Kolors sono dichiaratamente portatori di leggerezza.E le donne? I femminicidi? Non pervenuti. Marcella definisce la sua canzone un inno femminista, ma sembra più un mantra motivazionale: «La mia più grande fan sono io tosta indipendente». Meglio di niente? Mah.Uno sforzo in più lo fa il tanto discusso Fedez: che parla di depressione, dramma suo personale, certo, ma anche dramma sociale. Con lui fa la sua comparsa per la prima volta nei testi di Sanremo da che esiste il Festival la «Fluoxetina» (farmaco antidepressivo). La palma dell’originalità invece va alla cantautrice Joan Thiele, che dedica la canzone al fratello: un legame pressoché sconosciuto in un Festival che invece ha sempre abbondato di genitori e figli.Lucio Corsi pure parla di sé e delle sue fragilità, ma ha il merito di dire una grande verità: «Quanto è duro il mondo per quelli normali». Sulle grandi verità menzione speciale anche ai Coma Cose: «Un divano e due telefoni, la tomba dell’amore».La Balorda nostalgia di Olly echeggia titoli che a Sanremo sono stati tormentoni, ma perfino Nostalgia canaglia di Al Bano e Romina aveva un risvolto più sociale nello struggimento di chi ricorda il paese che ha lasciato, nostalgia di una casa di un amico di un bar. Mentre Olly patisce la solitudine, accende la tv e «cerca ancora la sua lei quando gli prude la schiena» (sic).Rose Villain ci va giù un po’ più duro sulla nostalgia: balorda? No, «puttana». Ma anche qui parliamo d’amore, mentre con Rocco Hunt il sentimento si sposta sul quartiere che lo ha visto bambino, ma è una canzone di riscatto, di rivincita: sempre un io, mai un noi.L’unico a porsi il problema del mondo in cui viviamo, della realtà che mastichiamo ogni giorno è Willie Peyote. Grazie ma no grazie è calata nel mondo, il rapper è osservatore acuto che non fa sconti a convenzioni, perbenismi e sguardi che si voltano dall’altra parte. Ha detto che per lui sarebbe assurdo andare su un palco così importante e non dire niente. Più o meno quello che disse Enzo Jannacci nel 1991: l’anno della guerra del Golfo, il Festival era in forse, poi si fece e lui portò La Fotografia, canzone che parla di una bambino ucciso dalla mafia perché «se il festival proprio si deve fare, almeno che sia occasione per dire qualcosa». Poi, certo: non è colpa dei cantanti se le panchine sono piene di gente che sta male, ma il mondo visto da Sanremo sembra fatto solo di piccoli e intimi drammi borghesi, una versione musicale del cinema dei telefoni bianchi ai tempi del fascismo. Allora però parlare di politica era una scelta che poteva costare la vita: oggi è solo una scelta conveniente.