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 2025  febbraio 06 Giovedì calendario

Storia del partigiano Francesco De Gregori

Il viso teso e affilato, la sigaretta tra le mani. È l’ultima fotografia del partigiano Francesco De Gregori, gliela scattò un tenente inglese paracadutato in quel lembo di terra, al confine tra il Friuli e la Slovenia. La primogenita Anna mostra quell’immagine annerita dal tempo, e ancora si commuove. A ottanta anni esatti dall’eccidio di Porzûs, i suoi occhi turchesi si riempiono di pianto. «Non faccia caso, mi porto le lacrime in tasca. E quella è una sofferenza che non passa».Nella sua casa di Monterotondo, borgo di campagna ai bordi di Roma, Anna De Gregori ripercorre una lunga assenza che è stata acuta presenza. «La notizia della morte arrivò quasi subito, nei giorni successivi al 7 febbraio. Non so se qualcuno me lo disse, avevo solo quattro anni. L’avrei seppellito poco per volta, giorno dopo giorno, respirando il dolore di mia madre Clelia».Francesco De Gregori detto Bolla, comandante partigiano della Banda Osoppo morto a 35 anni nella guerra contro i nazifascisti. Ucciso più volte da un destino che non gli fu amico. Morto la prima volta nella malga di Porzûs, ammazzato da altri partigiani. Morto una seconda volta dopo la strage, colpito dalle accuse menzognere di tradimento e collusione con i tedeschi. E morto molte volte ancora, nel lungo dopoguerra, soppresso dal silenzio e dalla reticenza di chi non voleva ricordare, perché quella scritta al confine orientale è una delle pagine più brutte della guerra partigiana.«Il nostro è stato un dolore trattenuto», racconta Anna, che ha pochi ricordi del padre vivo, separati prima dalla guerra poi dalla scelta di Francesco di salire in montagna. «Tutti l’abbiamo vissuto con pudore. Mia madre, quasi gelosa di quel suo amor grande. Io e mio fratello, troppo piccoli per una storia così spaventosa. E, ancora, i fratelli di mio padre – la famiglia De Gregori – vicini a noi con discrezione e affetto. Non se ne parlava molto, ma l’accadimento era sempre presente, sotto traccia ma incombente». La madre ha vissuto a lungo, 103 anni dedicati a chi era rimasto. «Nell’ultimo periodo era squassata dagli incubi. Urlava all’improvviso, nel silenzio della notte. Mamma che c’è? È successa una cosa terribile. Ma cosa? Una cosa terribile. Penso che con la sua testa sia stata sempre là, in quella malga, insieme al papà».Era stato il comandante Mario Toffanin, detto Giacca, a guidare la squadra di gappisti e garibaldini all’assalto dell’Osoppo. L’obiettivo erano Bolla e i suoi ragazzi, tutti cattolici, liberali e azionisti contrari – in nome della italianità – a confluire nell’esercito di liberazione jugoslavo che aveva mire annessionistiche sulla Venezia Giulia. Con i compagni della Garibaldi-Natisone i comunisti di Tito erano stati chiari: o fate fuori quelli contrari alla causa o passerete anche voiper reazionari e fascisti. Diciotto morti in undici giorni, dal 7 al 18 febbraio del 1945. Partigiani che uccidono partigiani: è successo altre volte, ma «questo è l’eccidio più grave per numero di morti, per l’efferatezza e per le implicazioni politiche», ci ricorda Tommaso Piffer nel suo ultimo documentato libro Sangue sulla Resistenza (Mondadori). Con uno strascico infinito nel rimpallo di responsabilità e nelle accuse a Bolla mai dimostrate, per tentare di dare un senso a un’azione inaccettabile.A riconoscere il corpo martoriato di De Gregori, salì da Roma il fratello Giorgio, una dinastia di bibliotecari che è anche storia d’Italia. Dopo l’8 settembre del 1943, Francesco era andato con i partigiani,mentre l’ultimo dei fratelli, Luciano, aveva scelto Salò. Nel giugno del 1945, a guerra finita, toccherà sempre a Giorgio dire al padre Luigi del figlio morto. Chiama altri amici, per avere più persone a dargli conforto. Ma Luigi reagisce con un silenzio di marmo, un vuoto di parole più straziante di qualsiasi lamento. E il silenzio rimarrà un tratto di famiglia. Per ritrosia certo, ma anche per reazione a una memoria pubblica esposta a molti veleni, nonostante la medaglia d’oro al valor militare arrivata alla metà dei Cinquanta. «Proprio in quegli anni, dal 1950 al 1959, mia madre era spesso in viaggio per seguire i processi contro gli assassini di mio padre», ricorda ora Anna. «Con lei andava lo zio Giorgio. Mada quei dibattimenti tornava sempre triste, perché è vero che gli imputati furono condannati, ma gli avvocati di difesa si tenevano in serbo ogni volta qualche cartuccia che arrivava dritta nel cuore della mamma. Calunnie, tentativi di depistaggio. Dovevano pur trovare una giustificazione per la loro vergogna, anche se non riuscirono mai a sporcarne la memoria».Un dolore grande, grandissimo e di tante sfumature diverse, quello dei De Gregori. Il dolore della perdita e il dolore per un’elaborazione collettiva che, tra amnistie e fughe all’estero dei colpevoli, si andava allontanando dalla storia, strattonata da opposte letture strumentali, tra chi a sinistra aveva interesse a liquidare e chi a destra netraeva pretesto per infangare tutta la Resistenza comunista. «Non odio nessuno, ma non posso dimenticare», dice oggi Anna. «Tante volte ho cercato di capire le ragioni degli altri. Posso comprendere che si muoia in guerra, ma non capisco la ferocia, l’accanimento, la determinazione con cui fu ucciso mio padre a tradimento, braccati i suoi uomini per giorni e giorni. Cos’era, se non furia ideologica? Io non riesco a perdonare. Erano quasi tutti giovanissimi, i ragazzi dell’Osoppo. Siamo gli unici orfani perché gli altri non avevano avuto il tempo per fare figli». Tra loro anche Guido Pasolini, il fratello di Pier Paolo, vent’anni non ancora compiuti. Il destino ha voluto che nel 1951, a sei anni dall’eccidio, Giorgio abbia scelto di mettere al suo secondogenito il nome di quel fratello tanto amato. Un altro Francesco De Gregori in famiglia. L’omonimia talvolta può uccidere, ma questa volta è il nipote a finire sotto i riflettori, artista capace di parlare al cuore e alla testa di più generazioni.Così famoso da aver paura con la sua luce di oscurare l’eroico zio partigiano un’altra volta. Anche le foto, in occasione degli anniversari celebrati a Porzûs, lo ritraggono nascosto in seconda fila, come se volesse starsene in disparte. «Sono orgoglioso di Bolla, fiero e felice di portarne il nome», ha confessato ad Antonio Gnoli nel bel libro-intervista per Laterza, una delle rare occasioni in cui si è aperto sullozio. Anche lui ha vissuto la sofferenza di Porzûs, seppure avvolta dal pudore del padre che «non ha mai scaricato su di noi il peso di quel dramma». Deve aver patito, artista amatissimo a sinistra, il silenzio imbarazzato della gauche istituzionale, a lungo afona sull’argomento. «Io credo che mio zio Francesco sia stato consapevolmente un eroe e col passare del tempo questa dimensione eroica della sua vita stia venendo sempre più fuori. Non era sicuramente un politico, come diceva Giorgio Bocca. Ma questo me lo rende ancora più simpatico».Le ricerche di Piffer restituiscono un Bolla pienamente consapevole, che per le ragioni imprescindibili della storia grande si trovò il mondo contro: i tedeschi, i russi (cosacchi), i fascisti della RSI, gli sloveni, i garibaldini, e pure le spie civili. «Mio padre era innanzitutto un soldato, l’unico tra i fratelli a scegliere la scuola militare», racconta la figlia. «E da soldato è morto, per difendere la sua patria antifascista». Non perdona Anna, ma non confonde tra la parte giusta e la parte sbagliata della storia. «È in errore chi pensa che l’eccidio di Porzûs possa sporcare la Resistenza. Sbagliarono gli assassini di mio padre, non gli altri comunisti che hanno combattuto nella guerra partigiana. Il presidente Napolitano disse sulla Banda Osoppo parole che restano. Non so se siano parole definitive, comunque per Bolla e i suoi uomini fu un riconoscimento importante».Il dolore ha messo a dura prova la famiglia De Gregori, ma è stato anche un potente mastice che continua a tenerli uniti. Una sera, a un concerto vicino a Udine, Francesco ha cantato Stelutis alpinis, una vecchia canzone di guerra riadattata per un suo album. Il testo parla di una sepoltura tra stelle alpine, e dell’amore per chi è rimasto. Se raccoglierai una di quelle stelle, è il senso della canzone, io ti sarò sempre vicino, anche quando ti sembrerà che non lo sono più. Ma lasciamo la parola a De Gregori. «Nel pubblico c’era anche la vedova di mio zio, una bellissima donna che ha vissuto oltre i cent’anni. Lì ci siamo resi conto, improvvisamente, che la canzone ci stava addosso. Paradossalmente può sembrare che io l’abbia pensata e scelta e invece no. È arrivata senza che io me ne rendessi conto». Anna si ricorda benissimo il concerto: «Piangevamo tutti quella sera. La canzone era tornata a casa. “È lassù che dormo in pace e per sempre dormirò”, cantava Francesco con il suo inconfondibile timbro. Parole tanto attese, la carezza che avevamo a lungo aspettato».