Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  febbraio 06 Giovedì calendario

Intervista all’architetto che collaborò con l’Aga Khan

Milano – «Un’avventura bellissima». Giancarlo Busiri Vici ha appena ventott’anni quando un giorno del 1961, alle sei del mattino, sbarca a Olbia con il traghetto da Civitavecchia assieme a suo padre Michele, smisurata dinastia di architetti alle spalle. Ad attendere loro e pochi altri professionisti in una saletta dello «squallido Hotel Jolly», ci sono un uomo e un’idea. L’uomo è Karim Aga Khan, scomparso ottantottenne martedì a Lisbona. L’idea è quella di una meta turistica rivoluzionaria: la Costa Smeralda.Oggi Giancarlo Busiri Vici, «tra un mese compio 92 anni», oltre che un grande nome dell’architettura dalla mente sempre lucidissima, è l’ultimo protagonista di quel progetto che cambiò la faccia della Sardegna e un po’ anche dell’Italia.Partiamo dall’Aga Khan. Come le parve incontrandolo la prima volta?«Lo avevo già visto la sera sul traghetto, mangiava al centro di una triste sala da pranzo assieme al suo fidatissimo collaboratore, l’avvocato André Ardoin. Ma non volli disturbarlo, era un personaggio da jet set. Quando lo conobbi, mi fece subito un’ottima impressione: una persona non comune, direi eccezionale. Gran signore e gran lavoratore e soprattutto impegnato a creare qualcosa di interessante, di bello di nuovo. Qualcosa che, modificando il meno possibile l’assetto del territorio, conservasse il fascino e la straordinaria bellezza di quella terra».Qual era la sua “filosofia” nell’immaginare la Costa Smeralda?«Ci spiegò subito che voleva uno sviluppo diverso da quello della Costa Azzurra o di altre località europee e che qui il concetto di speculazione edilizia doveva essere completamente bandito».In senso formale o sostanziale?«Ma sostanziale! Capisco che oggi nessuno possa credere che l’Aga Khan fosse interessato solo a creare qualcosa di mai visto e non avesse alcun intento speculativo. Ma era proprio così e per questo volle architetti – assieme a mio padre e a me c’erano Luigi Vietti, Jacques Couëlle e Antonio Simon Mossa – che fossero sensibili al paesaggio e alla natura. Noi eravamo entusiasti di quella opportunità, ma allo stesso tempo ci accostavamo a quel territorio, a quella bellezza, con un timore reverenziale, con la paura dimodificare un assetto perfetto».L’Aga Khan e una manciata di architetti a un tavolo, un immenso territorio davanti. Ci furono dissidi?«Innanzitutto il territorio era davvero selvaggio. Per lungo tempo ci muovemmo solo con i fuoristrada o con i barconi dei pescatori che ci portavano lungo la costa. Per il primo anno mio padre, ed io con lui, ebbe l’incarico di raccogliere una sorta di repertorio dell’architettura sarda. Battemmo tutta l’Isola, fotografando dettagli, portali, balconi, inferriate. Fu un lavoro che ci aiutò molto a immaginare un’architettura che si integrasse il più possibile con l’ambiente. Tra di noi anche vedute diverse, ma mai dissidi. Anche perché già nel 1962 l’Aga Khan, assieme al Consorzio, creò il Comitato di architettura, di cui era presidente, che fu una pietra miliare per la storia della Costa Smeralda visto che consentiva di filtrare ogni progetto edilizio».In che modo?«Chiunque acquistasse un terreno in Costa Smeralda e volesse edificare era obbligato per statuto a presentare il progetto al Comitato prima ancora che al Comune di Arzachena o alla Sovrintendenza. I progetti venivano esaminati al tavolino e poi c’era l’obbligo di creare sul terreno la sagoma dell’edificio con le sue proporzioni reali. Se si capiva che la costruzione deturpava il paesaggio o era visibile da troppo lontano se ne cambiava il disegno. Qualche proprietario provava a fare il furbo, evitando di sottoporci prima il progetto, ma in quel caso partiva subito un’azione legale».Un Soviet dei ricchi…«Forse. Ma questo Soviet ha contribuito a far sì che la Costa Smeralda rimanesse unica in Europa. E negli Anni ’60 e ’70 tutti volevano vedere questo fenomeno; c’era un boom anche pubblicitario, che assieme al jet set – da Gianni Agnelli alla famiglia reale inglese – portava un pubblico più vasto».Poi, però, un declino. Perché?«Io sono tornato sempre in Costa Smeralda, fino ai miei novant’anni. E direi che da quando, all’inizio degli anni 2000, l’Aga Khan lasciò, si sono visti gli effetti. La sua era una figura necessaria, forse per il carisma, forse per la determinazione, e anche quando non era più legato al Consorzio molti di noi hanno combattuto in tutti i modi per mantenere la linea delle origini. Una linea alla quale mi pare che la gestione attuale sia tornata attenta».I lavori firmati da suo padre che ricorda con più affetto?«L’Hotel Romazzino: ci fu chiesto di costruire un albergo da 120 camere, arredi e giardino compresi, in un anno. Ci riuscimmo. E poi la chiesetta di Porto Cervo. La volle l’Aga Khan, da musulmano, perché pensava che ci dovesse essere un luogo di culto per chi frequentava la Costa Smeralda».