Corriere della Sera, 6 febbraio 2025
Una senzatetto a Milano
Potremmo scrivere nome e cognome, anche il codice fiscale volendo, tanto è sincera e parla col prossimo e si racconta nei dettagli pur quando non richiesti, poi potremmo scrivere per esempio quanti e quali esami universitari aveva dato, e quando era sparita di sua volontà e tutti la cercavano per giorni, per settimane intere, e potremmo scrivere che malattie ha, se sono ereditarie oppure no, quali le cure ammesso che ci siano, e dove di preciso adesso s’accampa tipo se vicino al Duomo anziché alla stazione Centrale, ma alla fine questa donna tra i trenta e i quarant’anni incrociata appunto mentre a sera s’acquattava dopo aver fumato sigarette in serie sotto due strati di coperte, un sacco a pelo, borse e borsoni con dentro vestiti, calze di lana, e scatole di cartone, scatole di latta, dicevamo questa donna non ha proclami da fare, gente da attaccare, aiuto da chiedere, istituzioni da denunciare, Milano da attaccare; in verità non avrebbe nemmeno un titolo giornalistico in quanto sì, è una senzatetto, ma come altri/e, dov’è la novità?; sì, una senzatetto italiana, ma cambia qualcosa?; sì, una senzatetto italiana mamma, e quindi?; sì, una senzatetto italiana mamma che i poliziotti del locale commissariato, con pazienza e costanza, con tatto, e insieme a loro quelli della Croce Rossa e poi volontari vari, passanti, quelli della Caritas, i carabinieri di pattuglia, delle suore, una guardia giurata, dei rider, i tassisti, un panettiere, due giovani camerieri, hanno cercato invano di convincere ad accettare un dormitorio, un rifugio, una sistemazione qualunque.
«Non ho bisogno di nessuno, mi arrangio da sola. Non sono una barbona, non vivo tutto l’anno così, a volte amici e amiche mi ospitano, non sono una drogata, non mi sono mai fatta nemmeno una volta, non sono una delinquente, non ho rapinato, non ho rubato, queste sono le mie verità, libero o non libero di crederci. Non sono nata a Milano e neanche in Lombardia, vengo da più lontano dove oggi vive ancora mia mamma; fuori Milano verso la Svizzera abitano dei parenti ma hanno case piccole e molti figli, non c’è spazio per me o meglio uno spazio lo si trova sempre al caldo anche sul pavimento, chiaro, però non mi va di domandare niente. Ho due figli, il maggiore di tre anni e il minore di un anno e mezzo, il papà è sempre lo stesso uomo, un immigrato, richiedente asilo, ha riconosciuto il primo figlio ma non il secondo, non ce l’ho con lui soltanto che non mi va di vederlo, proprio no, basta. Fin da subito dopo il parto non mi hanno ritenuta valida come mamma, non c’erano, hanno scritto, guarda qui il provvedimento, aspetta che lo trovo in tutto ‘sto casino pazzesco, scusa se è così stropicciato, sono una frana, hanno scritto che mancano le capacità genitoriali. Non offro garanzie, certezze, affidabilità, zero di zero, e avranno ragione loro, non mi sono messa a contestare, cioè ho lottato ma non c’era verso, hanno deciso, fine, anche se però, penso ogni tanto, alle zingare con dieci figli e che rubano in metropolitana magari i figli non glieli tolgono mai… I miei bambini sono stati dati in adozione, non li vedrò più, li ho visti mesi fa in uno spazio protetto, desumo per l’ultima volta in vita mia, chissà dove andranno, non li vedrò più fin quando saranno grandi e, se ci sarò ancora, decideranno di cercarmi … Sai che cosa spero soltanto? Che vengano adottati insieme, che entrambi sappiano d’avere un fratello… Difficile, impossibile? Forse. Avevo interrotto gli studi universitari, le materie mi piacevano tutte ma non ci stavo troppo dentro… Ho lavorato come cameriera e facendo l’assaggiatrice. Come in che senso? C’era un’azienda di quelle che lavorano per i supermercati e che fanno testare il cibo secondo determinate fasce di sesso e d’età, in base alla media dei clienti, ti mettono sul piatto diversi prodotti, tu assaggi e devi dire quali preferisci. Se ho voglia di lavorare adesso? Sì, no, forse. Boh. Che potrei fare? Forse la badante, così almeno ho anche un posto dove stare… Ma chi mi prende? Puzzo, faccio schifo, sono sporca, mi trascino dietro ’ste cianfrusaglie… Ho un cellulare che non funziona bene, cioè se mi chiami va ma poi per Whatsapp si aggancia a un altro numero… Impossibile? No, sul serio, vedi un po’… Per il lavoro non ho dietro referenze da mostrare. Ma poi non sono neanche troppo sicura di voler davvero lavorare. In passato mia mamma mi passava qualche soldo, adesso no, forse domani chissà, ma lasciamo perdere».
Ha un bisogno disperato e urgente di parlare, ci sono delle evidenti, manifeste sofferenze di tipo psicofisico; piantata qui, per terra, sola, il viso armonioso, i lunghi capelli, minuta, rimanda l’immagine di un’intima esasperata fragilità.
Osserviamo da lontano e dei vagabondi si fermano, si chinano, attaccano a chiacchierare, non se ne vanno più; lei stessa ci ha confidato che di notte, così, all’improvviso, si ritrova disgraziati che tentano di mettersi sotto le coperte; mentre parlavamo era passato un ragazzo, lui pure di strada, e le aveva ordinato di dargli una coperta, noi avevamo posto delle obiezioni e quello ci aveva detto di tacere, perentorio, l’azione successiva sarebbe stata quella di mollarci un ceffone tanto era congelato e incazzato. «Tieni tieni tieni, prendi il sacco a pelo», gli aveva detto la donna.