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 2025  febbraio 06 Giovedì calendario

Avati dice che c’è bisogno di un ministero del cinema

«Abbiamo un problema molto serio, una bomba a orologeria che sta per esplodere».
Chi ha un problema, maestro Avati?
«Il cinema italiano. Non è la solita boutade, siamo davvero a un passo dal baratro. Anzi, ci siamo già dentro».

In che senso?
«Chiuda gli occhi e immagini un produttore cinematografico italiano, uno di quelli che considera ricco sfondato, senza ovviamente farmi il nome. Fatto?».
Fatto.
«Ecco, anche lui non dorme sonni tranquilli. Sta per finire tutto».
Dopo quasi sessant’anni di cinema, lei sarà ricchissimo.
«Macché, sono povero. Se fossi rimasto a vendere surgelati sì, a quest’ora sarei milionario».

Stiamo conversando in questa casa romana bellissima a due passi da piazza di Spagna, che da sola varrà...
«Altolà. Ci vivo da cinquantacinque anni ma non è mia, sono in affitto».

Perché non l’ha mai comprata?
«Perché non ho i soldi. Ci sono stati anni in cui ne ho avuti, anni in cui le banche elargivano così tanto credito al cinema italiano che mio fratello Antonio (da sempre il suo produttore, oltre che sceneggiatore, ndr) girava con la carta in titanio dell’American Express. Con quella potevi alzare il telefono e prenotare un volo per l’Australia con la cena nel miglior ristorante di Sidney appena atterrato, senza neanche arrivare a domandarti quanto avessi sul conto. I soldi giravano, punto. Ora a stento c’è il bancomat. Le cifre di cui si parla sottovoce fanno paura».

Colpa della fine del tax credit, imposta dal governo Meloni?
«Il governo non può permettersi il lusso di lasciar morire il cinema perché erroneamente lo considera una cosa fatta da gente di sinistra e destinata a elettori di sinistra. Sarebbe uno sbaglio madornale. Com’è noto ho sempre votato al centro, spesso per Forza Italia; ma questo non ha mai rappresentato un pregiudizio che mi impedisse di apprezzare o di non apprezzare i miei colleghi a seconda della loro appartenenza politica. Ci sono registi e produttori straordinari anche oggi, sono patrimonio del Paese. È il loro coinvolgimento che ci occorre se vogliamo far rinascere il cinema italiano; il governo e l’opposizione ci dedichino un momento del loro tempo prezioso immaginando una rinascita del nostro cinema. Che oggi è fermo, immobile: due anni fa, se cercavi un macchinista, non lo trovavi neanche pagandolo a peso d’oro; oggi di macchinisti ne trovi quanti ne vuoi, non sta lavorando nessuno».
A ottantasei anni compiuti, li ha fatti nel novembre scorso, a Pupi Avati sono successe tre cose: s’è di nuovo innamorato perdutamente della moglie Amelia, come ha scritto in una bellissima lettera pubblicata dal Foglio; ha messo in piedi il suo quarantacinquesimo film da regista, L’orto americano, che uscirà il 6 marzo; e gli è venuta un’idea, come dire, «politico-istituzionale», per provare a salvare il cinema italiano da quella Grande Depressione che a suo dire è già in atto.
L’idea qual è?
«Detto col massimo rispetto della presidente Giorgia Meloni e del ministro Alessandro Giuli, c’è bisogno di togliere delle competenze dal ministero della Cultura e creare un ministero ad hoc per il cinema, gli audiovisivi e la cultura digitale».
Scusi, non basta già il ministero della Cultura?
«Il cinema, inteso come film o come serie televisiva o in qualunque forma si vada proponendo, viene già fruito nei modi più difformi. Il suo presente è estremamente complesso e lo diverrà sempre più. Non può esistere un ministero che contemporaneamente si occupi di Uffizi e di Netflix perché sono cose troppo diverse. Meritiamo un ministero! Se lo si è fatto separando la scuola dall’università, mi sembra sia giunta l’ora di separare la produzione di un film o di una serie dalle celebrazioni dei duemilacinquecento anni di Napoli. Ne ho parlato con molti autorevoli colleghi trovando in loro quell’incoraggiamento che mi occorreva per lanciare questo appello».
Che cosa bisognerebbe fare?
«Iniziare a guardare a quello che fanno per esempio in Francia, dove il Centre national du cinéma et de l’image animée sostiene l’economia cinematografica, audiovisiva e multimediale, promuove prodotti, tutela il patrimonio».
Da noi c’è la Direzione generale Cinema e audiovisivo. Non è sufficiente?
«Là c’è Nicola Borrelli, professionista bravissimo: fa un ottimo lavoro e, nell’eventualità venisse accolta la proposta, sarebbe una risorsa. Ma abbiamo prodotto e sostenuto troppi film, tutti a budget altissimo, che spesso non ha visto nessuno. Col cambio del tax credit e questa fase di incertezza, in molti sono paralizzati da debiti e paura».
Lei come si muoverebbe?
«Meloni non abbia paura del cinema e non tema che sia fatto solo da gente di sinistra e per gente di sinistra perché non è così. Insieme all’opposizione, lavorino tutti per rendere possibile che una commissione composta da veri esperti del settore verifichi la fattibilità di questo nuovo ministero e si riparta daccapo. Per esempio, incoraggiando con i finanziamenti pubblici e il tax credit quelle produzioni a basso costo che possono dare grandi soddisfazioni, in sala e anche nel mercato internazionale. Basti guardare a Vermiglio o a Il ragazzo con i pantaloni rosa, costati pochissimo, che hanno portato risultati economici e di prestigio. Non c’è bisogno di grandi soldi per fare un ottimo prodotto. Anzi, spesso, con meno si fa meglio. I miei film di maggiore successo li ho fatti con due lire. Quando ho avuto a disposizione grandi budget, ho fatto grandi disastri».
Esempi?
«La casa dalle finestre che ridono e Regalo di Natale, realizzati con pochissime risorse».

In Regalo di Natale c’erano Diego Abatantuono, Carlo Delle Piane, Alessandro Haber: solo di cachet avrà speso un patrimonio. Non è così?
«Abatantuono, Delle Piane e Haber, insieme a Gianni Cavina e George Eastman, accettarono da mio fratello la proposta di prendere tutti lo stesso cachet: dieci milioni di lire. Il film lo girammo in cinque settimane in una villa di Fregene. Totale: centocinquanta milioni di lire, e ancora se ne parla».
Un esempio di produzione costosa andata a finire malissimo?
«I cavalieri che fecero l’impresa, nel 2001, i nostri guai sono cominciati là. Le ripeto: con meno soldi lavoro meglio. Ma non vale solo per me, attenzione. Spesso il grande cinema è venuto fuori in contesti di grande semplicità. Pensi a Pasolini».
Lavoraste assieme alla sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma, giusto?
«Andavo a trovarlo nella casa di via Eufrate 9, all’Eur. Una casa di una modestia incredibile, se pensa che ci abitava il più eclettico tra gli intellettuali italiani; e non agli inizi, bensì al massimo della sua carriera. Noi scrivevamo queste scene terribili, provando a codificare l’uomo al suo livello più basso, violenza e morte senza soluzione di continuità; e la mamma di Pier Paolo bussava alla porta per chiedere come volesse le melanzane, se fritte o arrosto. Ci volevamo bene».
Con Pasolini o con la mamma?
«Con entrambi. Pasolini mi fece un regalo incredibile, in quel periodo. Alla prima proiezione de Il fiore delle Mille e una notte mi chiese di star accanto alla mamma, che viveva quei momenti con grande apprensione. Prima che le luci in sala si abbassassero, mi prese la mano, la strinse e disse a voce bassissima e quasi tremante: “Speriamo che sia bello il film di Pier Paolo”. Stette quasi tutto il tempo con la sua mano nella mia e si rilassò solo dopo i titoli di coda. “È bello, è bello il film di Pier Paolo”».
Continuando a vendere surgelati, tutto questo se lo sarebbe perso.
«A quest’ora sarei ricco, probabilmente vivrei una qualche esistenza imbalsamata senz’altro fuori dall’Italia. Però…».
Però?
«Mi è andata benissimo così. Ora voglio che il cinema italiano si salvi. È per questo che sto provando a mettere tutti insieme, andando al di là degli steccati della politica; ci servono film di qualità anche perché non abbiamo lo star system degli Stati Uniti, dove ancora è sufficiente chiamare una certa attrice o un certo attore perché il film trovi i finanziamenti».
In Italia non ci sono più i divi del cinema?
«No, non ci sono».
Gli attori che ha lanciato le sono stati riconoscenti?
«In tantissimi sì. Abatantuono parla spessissimo di me e come lui tanti altri. Qualcuno di quelli che su suggerimento di mio fratello Antonio abbiamo lanciato, invece, è come se si vergognasse anche di nominarmi. E parlo proprio di attori che senza aver lavorato all’inizio in un mio film a quest’ora farebbero altro».
Se ne dispiace?
«Neanche troppo».