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 2025  febbraio 05 Mercoledì calendario

La riduzione della critica culturale a commento stronzo sui social

Vediamo se riesco a far entrare nello stesso articolo: la destra e la sinistra; Baricco; la sangiulianeide; la ferragneide; Fabio Fazio; Carlo Conti; Beyoncé; Frank Sinatra; quelli che non leggono i giornali ma leggono le newsletter (una categoria per la quale vorrei punizioni corporali).
L’altro giorno un amico di quelli che leggono le newsletter m’ha chiesto conto d’una cosa che avevo scritto in questa paginetta tre anni e spicci fa, e che tre anni fa evidentemente non aveva letto ma la settimana scorsa la modalità push ha fatto il miracolo, e quando quelle stesse righe se le è ritrovate nella posta gli sono improvvisamente parse interessanti.
Quella newsletter riportava un paragrafo del 2021 in cui io descrivevo la bacheca di compensato sulla quale, quand’avevo vent’anni e spicci, appiccicavo ciò che mi pareva interessante (articoli altrui) o donante (foto mie). L’amico me ne chiedeva conto perché nell’elenco si parlava d’una mia foto nuda; smaltita rapidamente la pratica nudi d’epoca, siamo passati alla vera reliquia d’una forma ormai sfasciata: una recensione.
Era una recensione scritta nel 1996 da Pietro Citati, sulla prima pagina di Repubblica. Parlava di “Seta”, il romanzo di Alessandro Baricco. L’amico se l’è fatta mandare, e abbiamo rapidamente convenuto che oggi quell’articolo non uscirebbe mai, ma non riusciamo a metterci d’accordo sulla ragione per cui non uscirebbe. Ve ne ricopio le prime righe.
«Nel mattino in cui scrisse Seta (Rizzoli, pagg. 100, lire 18.000), Alessandro Baricco immaginò che tutta la letteratura del mondo fosse scomparsa. Non c’era più nulla: né Shakespeare né Tolstoj né Goethe né Dostoevskij né Baudelaire né Hopkins; e nemmeno uno di quei sogni che, da sempre, gli uomini hanno legato alla letteratura. E, subito dopo, con un rapido gesto da illusionista, Baricco fece scomparire tutta la realtà: i sentimenti, le case, i fiumi, le montagne, le città, le strade, i fiori, il mare che la letteratura e lui stesso avevano rappresentato. La sua stanza era vuota. Dopo quella doppia abolizione, non restavano sul suo tavolo che poche tarsie di un puzzle: pochi frammenti di Voltaire e di Calvino, di Marco Polo e di Borges, qualche segno di Perec, di Bouvard e Pécuchet e di Baricco. Li tagliò, li suddivise, li ridusse alla trasparenza della carta velina; e cominciò a scriverci sopra con una matita acuminata. Come Flaubert, voleva scrivere “un libro fatto di niente”: sogno che Flaubert non realizzò mai, tanto il suo spirito era colmo di immaginazioni sontuose. Baricco ci riuscì benissimo».
L’amico, e anche altri tra coloro ai quali ho fatto leggere l’articolo ventinove anni dopo la sua uscita, sosteneva che oggi non solo una ventitreenne – la mia età dell’epoca – non capirebbe una parola, ma i giornalisti culturali non sarebbero in grado di decidere se il collaboratore abbia mandato una stroncatura o un elogio, a causa del modo troppo articolato e complesso di Citati di dire le cose.
Io, che non vedo margini di equivocabilità né nella prima né nell’ultima frase del passaggio che vi ho ritagliato, ritengo che una così clamorosa stroncatura oggi non uscirebbe. Perché siamo un secolo così scemo che i detrattori li chiama “hater”. Perché siamo un secolo così scemo che una ventenne cui piaccia un Baricco d’oggi non si attaccherebbe mai al muro qualcuno che lo stroncasse.
Soprattutto, perché siamo un secolo così scemo che abbiamo creato praterie d’indicibile, e il risultato è che nessun giornale rispettabile pubblica roba che non sembri un comunicato stampa, a proposito di personaggi rispettabili. Chiunque sia il Baricco d’oggi (Massini? Edoardo Prati? Marracash?), non troveremo chi lo critichi se non su giornali il cui precipuo ruolo è farsi notare urlando che il re è nudo anche quando il re è vestito di tutto punto. Pensa che ventenni infelici saremmo stati, se Citati fosse dovuto andare a stroncare Baricco su Libero (qual era il Libero di trent’anni fa?).
Siamo talmente terrorizzati dall’esprimere giudizi appena più articolati di quelli che si rivolgono alle spose nel giorno delle loro nozze, che ci rifugiamo dietro ai numeri. Amadeus faceva entrare gruppi a me sconosciuti sul palco di Sanremo annunciando quanti fantastiliardi di visualizzazioni avessero, e immagino lo farà anche Carlo Conti, lo fa persino Fabio Fazio, è evidentemente ormai lo standard di presentazione degli artisti: è rilevante, lo dicono i numeri. Solo che i numeri non dicono che è rilevante: al massimo dicono che è popolare, che lo è in quel minuto lì. Quando entra Gianni Morandi, nessuno ha bisogno di dire quante visualizzazioni ha su YouTube.
Lunedì Megyn Kelly, che essendo repubblicana può dire le verità che noialtri gente rispettabile abbiamo stabilito essere indicibili, ha fatto presente che Beyoncé nella sua carriera ha vinto trentacinque Grammy, e Frank Sinatra undici. I numeri ci dicono una cosa incontrovertibile, ed è che i numeri non certificano la rilevanza, non spiegano come mai sappiate canticchiare almeno dieci canzoni di Sinatra e solo due di Beyoncé.
Ma d’altra parte non è il lavoro dei numeri, mettere in contesto il mondo. Sarebbe il lavoro dei critici, parlandone da vivi, parlandone come se ne parlava quando una stroncatura non era un’opera da, che il dio delle parole sciatte mi perdoni, hater.
Sempre lunedì, sono andate in onda due interviste. La mattina, Maria Rosaria Boccia (per chi se ne ricorda) era ospite di David Parenzo; il pomeriggio, Chiara Ferragni ha risposto a un inviato di “Pomeriggio 5” che l’ha fermata per strada. Erano, per ragioni diverse ma convergenti, uno spettacolo straziante.
La Boccia faceva intendere che presto sarebbe uscito un suo libro, di cui non forniva un titolo o altro, e guardava un punto imprecisato alla destra della telecamera, e io mi chiedevo se ci fosse qualche accompagnatore che guardava per sentirsene rassicurata, o se fosse convinta di guardare dritta in camera ma non sapesse abbastanza la tv da farlo davvero.
O meglio, me lo sarei chiesto se non fossi stata ipnotizzata dall’unica cosa che spiccava in quello studio televisivo. La signora era vestita di nero, ed era quindi impossibile, dati i suoi capelli biondissimi, non concentrarsi sulle doppie punte sfibrate sciolte sull’affannoso petto. Parenzo le chiedeva se fosse incinta, lei diceva che in caso non lo sarebbe di Sangiuliano, e a me sembrava che Ciro Cirillo fosse più attuale: veramente c’è stato un attimo in cui ci siamo interessati di quella vicenda? Sembrano passati sette secoli.
Poche ore dopo, Chiara Ferragni rispondeva a un qualunque inviato d’una qualunque televisione per strada, come un’Alba Parietti, come una Elly Schlein, come un qualunque rappresentante del demi-monde dello spettacolo, di quelli che non lascerebbero mai un giornalista senza dichiarazione.
Chiara Ferragni, quella che due anni fa i giornali supplicavano d’apparire sulle loro copertine. Chiara Ferragni, quella che un anno fa andava da Fazio a spiegarsi, e che lo facesse nel posto più prestigioso della tv italiana sembrava ovvio come che ci vada Cecilia Sala o il Papa: dove altro vuoi che vada l’unico colosso della comunicazione che questo paese abbia inventato negli ultimi anni?
Non ha detto niente, all’inviato di “Pomeriggio 5”, perché tutto cambia ma che Chiara Ferragni non dica niente è una caratteristica endogena e immutabile: non diceva niente quando Michela Murgia la intervistava per Vogue nel momento della gloria, non diceva niente quando Fabio Fazio la intervistava nel momento della caduta, non dice niente oggi.
Oggi che criticarla sarebbe accanimento, ma il problema è che bisognava farlo prima. Il problema, uno dei moltissimi problemi della riduzione della critica culturale a commento stronzo sui social, è che poi si finisce così. A guardare le immaginette congelate in una terra di mezzo tra la gloria e il dimenticatoio, chiedendosi: ma noi veramente abbiamo perso tutto questo tempo con questi fenomeni, e senza riuscire, prima che il loro sbrilluccichio declinasse, a farne un’analisi interessante?
Veramente abbiamo scambiato la loro estemporanea popolarità per rilevanza sempiterna? E, se l’abbiamo fatto con la Boccia e la Ferragni, di quanti altri equivoci siamo stati in balìa? Quanti hamburger abbiamo scambiato per filetto? Quanti Chalamet per Paul Newman? Quante Beyoncé per Sinatra? 
Veramente abbiamo guardato la gloria – durata anni in un caso e poche settimane nell’altro – di Chiara Ferragni e di Maria Rosaria Boccia senza osare alcuna obiezione, giacché una diceva le cose giuste sui temi sensibili e l’altra rappresentava pur sempre un danno al governo di destra, e quindi erano incriticabili? Veramente siamo così seghe, noialtri il cui lavoro è capire il mondo, che basta che una si posizioni dal lato giusto dei cuoricini di Instagram e siamo disposti a fingere di crederla più rilevante di Sinatra, o la figlia naturale di Simone de Beauvoir?