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 2025  febbraio 05 Mercoledì calendario

Le radici di Orbán

Nelle mappe che Freedom House traccia per rappresentare graficamente la diffusione della libertà nel mondo, l’Europa appare come un’omogenea zona verde, circondata dal giallo e dal viola. I paesi dell’Unione europea sono infatti “Stati liberi”, ossia democrazie consolidate in cui le libertà civili e i diritti politici sono in generale garantiti. Verso Est e verso Sud, la mappa inizia invece a tingersi di giallo, il colore degli Stati “parzialmente liberi”, o del viola che identifica gli Stati “non liberi” (cioè i regimi marcatamente non democratici). Anche nel cuore del Vecchio continente da qualche anno ha iniziato però a comparire una macchia gialla. È l’Ungheria di Viktor Orbán, considerata anche da molti politologi come un “regime ibrido” che combina tratti propri delle democrazie liberali ed elementi caratteristici degli autoritarismi.
Per spiegare l’enigma di questa involuzione, secondo Stefano Bottoni, docente di storia dell’Europa orientale all’Università di Firenze, bisogna guardare alla storia di lungo e medio periodo del Paese. Nel suo volume L’Ungheria dagli Asburgo a Viktor Orbán (Scholé, pagine 366, euro 27,00), propone infatti una rilettura che si spinge fino all’anno Mille, quando il re Stefano, l’ultimo principe della dinastia degli Ungari, decise di convertire il suo popolo – fino a quel momento nomade e pagano – alla stanzialità e al cristianesimo. Il giovane regno venne così a far parte della Chiesa occidentale e si integrò all’interno delle dinamiche europee, intrecciando così la propria storia a quella delle altre casate del continente. Nel 1541 la conquista ottomana di Buda avviò però la frantumazione territoriale del regno. Iniziò allora a prendere corpo un fenomeno destinato a contrassegnare la storia magiara, ossia la frammentazione della popolazione ungherese in una pluralità di Stati. Anche oggi d’altronde solo dieci dei quattordici milioni di madrelingua ungherese vivono sotto il governo di Budapest. E proprio il lutto dell’unità perduta segna, come tratto indelebile, la memoria e il sentimento nazionale. Il trauma che più ha pesato su questa rappresentazione del passato coincide però soprattutto con la dissoluzione dell’impero asburgico e con lo smembramento che, all’indomani della Prima guerra mondia-le, colpì la società ungherese. La perdita della dimensione imperiale impresse infatti una ferita destinata a definire profondamente lo specifico nazionalismo del paese. Tanto giungere sino al XXI secolo. La direzione imboccata dall’Ungheria dal 2010 – da quando cioè Orbán ha conquistato per la seconda volta la carica di primo ministro – è al tempo stesso la conseguenza di quella lunga storia e il frutto della transizione verso la democrazia iniziata nel 1989. Già a partire dalla metà degli anni Sessanta, l’Ungheria aveva iniziato a rappresentare un’anomalia tra i Paesi che aderivano al Patto di Varsavia. Dopo il trauma del 1956, il regime, sotto la guida di János Kádár, aveva avviato infatti una serie di riforme che, sotto il profilo economico, avevano portato a stringere relazioni economiche con il mondo occidentale. L’Ungheria fu dunque protagonista, dal 1964 al 1989, di una sorta di “doppiogioco”, che per un verso la vedeva stabilmente sottomessa alla guida di Mosca, mentre per un altro non cessava di allargare gli spazi di autonomia sul versante dello sviluppo economico e dei consumi privati. E, sottolinea Bottoni, proprio la lunga stagione di Kádár, ancora viva nella memoria collettiva, continua a condizionare il Paese.
Nel momento in cui giunse alla transizione, l’Ungheria era dunque già legata all’Occidente. Per questo la transizione fu meno traumatica che altrove. Ma si realizzò in forme destinate a pesare sul futuro. «La democrazia ungherese postcomunista», scrive infatti Bottoni nel suo efficace affresco, «fu il risultato finale di un compromesso di élite», da cui scaturì una democrazia «formale», incapace di tramutarsi in una «democrazia vissuta». Uno dei problemi che emerse fin dall’inizio fu quello dell’indifferenza di una parte della popolazione verso la politica. Un’indifferenza che divenne evidente già nei primissimi anni della transizione, quando la partecipazione elettorale – pur trattandosi delle prime consultazioni libere – rimase piuttosto bassa. In quella fase si diede forma, inoltre, a un assetto istituzionale che in seguito avrebbe facilitato l’involuzione autoritaria. Per scongiurare un possibile ritorno al potere degli ex comunisti, i padri costituenti della nuova repubblica democratica previdero infatti un meccanismo che assegnava una forte posizione alla maggioranza di governo e al suo leader. Già negli anni Novanta prese inoltre a maturare nella società ungherese una critica all’adozione “mimetica” del modello occidentale perseguita dalle élite. E proprio da questa critica il giovane Viktor Orbán rimase affascinato. Tanto da farne, dopo la sconfitta subita nel 2002 per una manciata di voti, il perno di una propaganda che faceva leva sull’identità ungherese e sulla memoria di lungo periodo del popolo magiaro.
Quando tornò al potere, nel 2010, il leader di Fidesz iniziò a erigere, mattone dopo mattone, un nuovo regime, sempre più lontano dal modello della democrazia liberale. La radice di quella trasformazione stava nelle stesse modalità in cui si era prodotta la transizione. O meglio, come scrive Bottoni, «nella mancata interiorizzazione del valore della democrazia». E con Orbán, più che il modello di una nuova democrazia illiberale, è tornato in superfice un elemento consolidato della lunga storia ungherese. Una tradizione di gestione del potere basata su «un rapporto di subordinazione fra lo Stato e una società formata non da cittadini ma dall’insieme dei sudditi di un buon feudatario». Una tradizione definitasi nei secoli, consolidata nel Novecento da Horthy e Kádár, di cui Viktor Orbán non sarebbe dunque che il nuovo erede