Avvenire, 5 febbraio 2025
Il male di vivere degli insegnanti italiani
C’è un buco nero che inghiotte la salute e perfino la vita di decine di insegnanti italiani, categoria esposta, più di altre, al rischio suicidario. A svelare una realtà ancora poco indagata ma che già sta provocando lutti e sofferenze, è una ricerca di Vittorio Lodolo D’Oria, medico specializzato nelle patologie da stress da lavoro, che da anni lavora sul burnout degli insegnanti. Un “male di vivere” spesso non riconosciuto, stante gli stereotipi sociali legati alla figura del docente. Che, ancora oggi, per la maggioranza delle persone è un dipendente pubblico che «lavora quattro ore al giorno e ha tre mesi di vacanza». La realtà, come documenta il lavoro di Lodolo D’Oria compreso quest’ultimo dossier sui “suicidi degli insegnanti” pubblicato su LabParlamento, quotidiano online di analisi e scenari politici – è tutt’altra e racconta una storia sconosciuta ai più. Già sul finire del 2023, lo specialista aveva reso pubblico un primo, allarmante studio sul fenomeno. Ora, a oltre un anno di distanza, i dati di questa seconda indagine confermano le stesse evidenze, segno che, nel frattempo, il dossier dei suicidi tra gli insegnanti non è stato nemmeno aperto. Non essendoci dati ufficiali a disposizione (l’Istat pubblica i dati sui suicidi in Italia senza, però, stratificarli per professione), sono stati analizzati i casi di suicidio di insegnanti segnalati dalla stampa. Quindi è molto probabile che siano sottostimati, perché, come rileva lo stesso Istat, «non tutti i suicidi vengono alla luce perché spesso la famiglia del defunto vuole evitare di divulgare il fatto alla comunità». I “numeri” a disposizione sono, comunque, significativi: tra il 2014 e il 2024 ci sono stati 110 casi, praticamente uno al mese, escludendo luglio e agosto, quando le lezioni sono sospese. In media, ogni anno, si sono verificati da un minimo di sei a un massimo di undici casi, con un picco di 26 insegnanti suicidi nel 2017 «senza alcuna spiegazione apparente», commenta Lodolo D’Oria.
Suddivisi per genere, si tratta di 45 uomini e 65 donne, nonostante il fatto che la categoria dei docenti sia composta per l’83% da personale femminile. E per fortuna, verrebbe da dire almeno in questo frangente specifico, visto che i maschi, dice la letteratura scientifica internazionale, tendono a suicidarsi quattro volte più delle donne. I dati italiani, raccolti in maniera empirica, sono però abbastanza simili a quelli, ufficiali, registrati in Francia nel 2005 e nel Regno Unito nel 2009 e nel 2012. Questi sono, infatti, gli unici due Paesi che hanno valutato il rischio suicidario degli insegnanti, rilevando i livelli più alti rispetto a tutte le altre categorie professionali e alla popolazione generale. «L’Italia- ricorda Lodolo D’Oria – si è finora addirittura rifiutata (attraverso il Ministero Economia e Finanza) di fornire a università e sindacati o, in alternativa, di processare in proprio i dati relativi ai 20 anni di attività dei Collegi medici di verifica regionali del Mef (2004-2024) per riconoscere ufficialmente le malattie che causano le inidoneità/ inabilità all’insegnamento. Queste ultime – sottolinea l’esperto di Slc – secondo le ricerche oggi disponibili, presentano diagnosi psichiatriche nell’80% dei casi (cinque volte di più delle disfonie) e potrebbero spiegare, almeno in parte, l’alto tasso suicidario contro cui occorre attuare la prevenzione di legge del decreto 81 sulla sicurezza dei lavoratori ancora oggi inapplicata, se non addirittura ignorata».
Tra le contromisure proposte da Lodolo D’Oria per contrastare il fenomeno, la revisione delle regole pensionistiche, sulla base delle reali «condizioni di salute professionale dei docenti». Una “battaglia” portata avanti da tempo dal sindacato autonomo Anief, che ha lanciato una petizione online, che ha superato le 100mila firme, per portare l’età pensionabile degli insegnanti a 60 anni, «come per forze armate e polizia», sottolinea il presidente nazionale Marcello Pacifico: «Il 35% dei docenti vuole licenziarsi: diciamo stop al burnout». Prima che sia troppo tardi.