La Stampa, 5 febbraio 2025
Biografia di Achille Serra
Il primo ad affacciarsi alla porta di casa di Achille Serra è un barboncino marrone vivacissimo. Si chiama Pedro. «Da giovane ero un casinista come lui», dice a La Stampa il suo padrone, l’ex «poliziotto senza pistola», chiamato così già negli anni ’70 prima di diventare questore, prefetto e vicecapo della polizia. «Sono cresciuto a Roma, nel quartiere di San Giovanni – spiega Serra -. Litigavo con tutti, ero un piccolo boss. Un giorno rubai persino una campana in una chiesa sconsacrata».
Uno così non sembrerebbe destinato a lavorare in polizia.
«E infatti volevo fare l’avvocato. Mentre preparavo il concorso – era il ’68 – uscì quello di commissario. Lo superai, andai al ministero, mi chiesero: “Preferenze?”. Risposi: “Milano”. Era costosa, fredda, violenta: nessuno voleva andarci. E infatti mi ci spedirono di corsa».
Poche settimane e se ne voleva già andare.
«Mi misero a smistare carte in un piccolo commissariato. Andai dal questore e dissi: “Se è così, torno a Roma e faccio l’avvocato”. Lo stesso giorno fui trasferito alle Volanti: in pochissimo tempo capii che quel mestiere l’avrei fatto per sempre».
Il primo funzionario che affiancò a Milano fu Luigi Calabresi.
«Un uomo eccezionale, che non avrebbe fatto male a una mosca. Dopo la morte di Pinelli, per la quale non ebbe alcuna responsabilità, venne ucciso ogni giorno nei cortei e sui giornali. Gli chiesi: “Perché non te ne vai?”. Mi rispose: “Tu te ne andresti?”. Per anni odiai il governo (il primo di Andreotti, ndr) perché non lo trasferì d’ufficio e non gli diede la scorta».
Che ricordo ha delle proteste studentesche di quegli anni?
«I tram rovesciati, le molotov, le macchine bruciate. Poi, puntualmente, alle otto di sera, prima del quiz in tv, finiva tutto: i manifestanti erano perlopiù figli di papà».
Nella sua autobiografia ha raccontato che salvò la pelle a Mario Capanna.
«Durante i funerali di Antonio Annarumma, l’agente rimasto ucciso negli scontri del novembre ’69, Capanna lanciò un drappo rosso sul feretro. La folla gli si riversò addosso. Insieme a Calabresi lo prendemmo di peso e ci serrammo in una farmacia, salvandolo dal linciaggio».
Il leader del ’68 le avrebbe presto restituito il favore.
«A un altro funerale, di Giangiacomo Feltrinelli. Mi ero intrufolato tra estremisti. Capanna mi scorse, ci fissammo a lungo. Se avesse alzato un solo dito, in centinaia mi sarebbero saltati addosso. Capii che dovevo andarmene».
Fu il primo a raggiungere Piazza Fontana dopo la strage del ’69.
«Ero in questura quando arrivò una chiamata al 113. “Sarà esplosa una caldaia”, dicevano, così mandarono il più giovane. Appena entrai, vidi un uomo tagliato in due. E poi le urla dei feriti, la puzza di bruciato. Milano non aveva mai vissuto una pagina così».
Tre anni dopo arrestò Renato Vallanzasca.
«Facemmo irruzione nel suo appartamento grazie a una soffiata, ma non avevamo prove. Renato si sfilò l’orologio e mi disse: “Vale tre anni di stipendio, se riesci a incastrarmi è tuo”. Le prove le trovammo nel cestino: centinaia di pezzetti di carta che, ricomposti, riportavano gli importi esatti del colpo. Gli restituii l’orologio e lo accompagnai in galera».
A Milano si sparava tanto: in media c’erano 150 omicidi l’anno. E a un certo punto iniziarono pure i rapimenti.
«Cominciammo a indagare come se fossero crimini comuni. Poi creammo un vero e proprio pool. L’exploit fu nel ’78, col sequestro di Carlo Lavezzari: riuscimmo a catturare il telefonista mentre chiedeva il riscatto. Disattivammo metà delle cabine telefoniche e disponemmo gli agenti in modo che ce ne fosse uno a non più di trenta secondi da quelle funzionanti».
Una delle confessioni più incredibili che raccolse non fu però legata alla mala.
«Era il ’71, stavo finendo il turno quando si presentò una maestra delle elementari. Esile, composta, appoggiò la borsetta sulla scrivania e tirò fuori un pene grondante di sangue. Aveva evirato l’amante. Corremmo nell’abitazione e riuscimmo a salvarlo».
Ha guidato il Servizio centrale operativo, poi è tornato a Milano da questore nel ’93: fu allora che conobbe Berlusconi?
«Lo incontrai a un Milan-Roma, subito dopo mi invitò a cena con Fabio Capello. A fine pasto, disse: “Se divento presidente del Consiglio, la nomino capo della polizia"».
Divenne invece “solo” vicecapo vicario.
«Fu Oscar Luigi Scalfaro a opporsi: odiava così tanto Berlusconi da contestargli ogni nomina. Finii in quello scontro e ne pagai lo scotto anche dopo».
Il governo cadde, arrivò Dini e le chiesero di andare a Palermo.
«La città era in preda alla disperazione. In piena emergenza misero 20 agenti a piantonare l’albero di Falcone. Volevo toglierli. “E se lo fanno saltare?”, mi chiesero. “Lo ripiantiamo. Ma intanto usiamo quegli uomini contro la criminalità”. Non ci riuscii. Il procuratore Caselli voleva la scorta per tutti i suoi sostituti. Erano 46. Gli dissi: “Impossibile, servirebbero 2000 uomini”. L’indomani andò da Scalfaro, ne ottenne 2200. Fui costretto a usarli così».
Fu in quei mesi che decise di candidarsi con Forza Italia. Ma durò poco: dopo due anni si dimise.
«Di solito, in questi casi, i funzionari li mettono in ghiacciaia. Ma Giorgio Napolitano, allora ministro dell’Interno, mi rassicurò: “La facciamo ricominciare da Firenze o Bologna"».
Si ritrovò invece ad Ancona.
«Anche lì per scelta di Scalfaro. Quando andai a ringraziarlo per cortesia istituzionale, mi gelò: “Non c’è di che, lei adesso starà quei 4-5 anni ad Ancona…"».
Lo prese come un avvertimento?
«Lo era. Quando uscii dal Colle mi tremavano le gambe».
Ad Ancona ci stette però solo undici mesi.
«Perché nel frattempo Scalfaro se ne andò. Ma ciò non gli impedì, da presidente emerito, di chiamare il gabinetto della ministra Iervolino per chiedere conto della mia nomina a prefetto di Firenze».
Dove si ritrovò a gestire il Social forum del 2002, l’anno dopo il G8 di Genova.
«Chiedevano di manifestare in centro senza vedere agenti. Oriana Fallaci mi si scagliò contro: “Farà bruciare la mia città!”. Ma grazie al dialogo non ci furono scontri. Fu un successo».
Rimpiange di non essere mai diventato capo della polizia?
«No. Ci si diventa solo se si ha a lungo lavorato a Roma. E io, che pure sono romano, nella capitale sono stato poco».
Qual è l’aspetto che è più cambiato nei suoi 40 anni di attività?
«Un tempo si indagava con intuito e determinazione, oggi ci sono più strumenti, ma spesso sono proprio quegli strumenti a limitare l’intuizione».
Meno furti, meno omicidi: tra ieri e oggi non c’è confronto. Perché la percezione della sicurezza non è migliorata?
«Colpa di una malavita di strada che forse oggi è peggio di allora. La baby gang che taglieggia il vecchietto all’ingresso di casa fa molta più paura di una rapina in banca».