la Repubblica, 5 febbraio 2025
Qualcosa si muove a sinistra
E voi, state con Franceschini o contro? Da tanto tempo una proposta politica contenuta in un’intervista a un quotidiano, come quella rilasciata da Dario Franceschini a Repubblica, non suscitava un dibattito così vivo.
L’idea lanciata da Franceschini piace a molti e dispiace ad altrettanti. Nessuno ha ritenuto di poterla ignorare. Dice in sostanza l’ex ministro della Cultura che, a poco più di due anni dalle Politiche, le opposizioni hanno due opzioni in mano: la prima è, a suo dire, ripetere gli errori del passato, trascorrendo i prossimi anni a litigare sul programma, il candidato premier nonché il modo di selezionarlo, arrivando alle elezioni divisi da questi battibecchi ovvero stremati come il Prodi bis della fu Unione o il Pd delle ultime stagioni.
Altrimenti, suggerisce Franceschini, si può prendere atto che le forze oggi all’opposizione del governo Meloni non hanno alcuna possibilità di creare prima del voto una coalizione degna di questo nome, inutile dunque sognare la rifondazione dell’Ulivo, che non tornerà più, come le merendine dei pomeriggi di maggio in quel film di Nanni Moretti sulla fine del Pci.
L’unica soluzione pragmatica, conclude Franceschini, è che i partiti che non vogliono altri cinque anni di Meloni stringano un patto sui collegi uninominali e per il resto facciano ognuno la sua campagna elettorale, liberi di brucare i loro prati elettorali senza condividerli. Una soluzione insieme realistica e disperata, va da sé.
Tecnicamente la legge elettorale consente questo escamotage, sempre che non venga riformata: sulla scheda i simboli da Renzi a Fratoianni e Bonelli passando per Pd e M5S concorrerebbero solo a eleggere il comune candidato di collegio – andrebbe fatta ovviamente una spartizione preventiva – ma ognuno di fatto farebbe corsa a sé senza vincoli di programma e premiership. Franceschini ci ha pure messo sopra uno slogan intrigante: divisi si vince, che alcuni ammalati di letteralismo hanno preso per testuale.
Dicono i detrattori dell’idea di Franceschini: siamo matti? Presentarsi agli italiani senza un’idea su chi andrà a palazzo Chigi e per fare cosa è un grande assist a Meloni, una resa preventiva, un espediente da circo. Difficile considerarle solo obiezioni strampalate.
Ribattono i favorevoli, e Franceschini medesimo: nessuno è così sciocco da pensare che sia nobile rimandare a dopo il voto gli accordi di governo in caso di vittoria, ma per fare diversamente occorre una volontà reciproca di stare insieme da parte delle forze in campo, e questa volontà al momento non c’è.
Certo non quella del M5S. Non è irrilevante che il suo leader Giuseppe Conte abbia detto che per lui il lodo Franceschini – così è stato ribattezzato nel dibattito pubblico – è una buona base di partenza e che oltre non si sente di andare.
Nemmeno queste chiare parole di Conte hanno scoraggiato chi a una coalizione vera non vuole rinunciare, sebbene la situazione sia simile a quella di una coppia nella quale uno dei componenti è contrarissimo all’idea di nozze in chiesa, e si dice invece disponibile a una blanda relazione, salvo che il partner anziché scegliere una delle due risposte logiche – accettare o dirsi addio – pare determinato a condurlo davanti al prete dopo averlo stordito.
Naturalmente il dibattito è ricco di tutti gli opportunismi che impestano da sempre il Pd. Perciò c’è chi rimprovera a Franceschini di avere come vero obiettivo quello di declassare Schlein, quando in realtà è vero piuttosto il contrario: in tanti sperano in un accordo preventivo solo affinché la guida della coalizione venga affidata a un federatore terzo, cioè né Conte né Schlein.
Difficile anche spiegarsi perché a molti dem di area riformista non vada giù l’idea di rinunciare a un accordo politico pieno con il M5S, proprio loro che hanno sempre sostenuto – non a torto, peraltro – una radicale incompatibilità di visioni.
l tempo stesso anche Franceschini e i suoi fautori, come per esempio Goffredo Bettini, dovrebbero dire come mai fosse così decisivo nel 2019, anziché andare subito al voto dopo la caduta del Conte I, fare un governo con una forza che, per quanto cambiata dai tempi del governo gialloverde, resta così distante da rendere necessario che Pd e M5S si presentino al voto senza rivolgersi troppo la parola.
Schlein, che ha l’incontestabile merito di aver tenuto vivo il partito quando tutti lo davano per andato, ha scelto di tenersi a distanza dal dibattito, convinta di dover restare sui contenuti di merito, e soprattutto che non ci sia altra strada che mostrarsi unitaria senza deflessioni. Toccherà ad altri, nel caso, smarcarsi e spiegare agli elettori il perché.
In questo senso persino Romano Prodi, non certo un fan del lodo Franceschini, ha riconosciuto che alla fine potrebbe non esserci altra strada che andare al voto secondo il suo schema.
D’altra parte, chi non ne vuol sapere ha a sua volta due possibilità: o convincere Conte a entrare davvero in comitiva o andare avanti solo con chi ci sta. Quale sarebbe l’esito di uno scontro elettorale tra il centrodestra unito e l’opposizione divisa come cinque anni prima, non serve un lodo per spiegarlo.