la Repubblica, 5 febbraio 2025
«Entriamo a Gaza intorno a mezzogiorno...»
L’elicottero sbalza in volata, scende rapido da 3mila a 2mila piedi, poi 1000, 800, curva verso ovest: quando riprende la traiettoria la visuale è senza misericordia. Una recinzione malmessa separa due mondi: di qua, verso oriente, prati verdi e serre, e il kibbutz Kissufim assaltato da Hamas il 7 ottobre. Di là, solo la terra rimasta nuda, senza più frutti, senza abitanti. Gaza. Per almeno un chilometro di profondità, l’esercito di Netanyahu ha cancellato ogni cosa. I campi coltivati, i pozzi, le case dei contadini, i sistemi di irrigazione ricostruiti con i soldi della cooperazione dopo innumerevoli guerre, e ogni volta distrutti. La battaglia con Hamas anche in questa zona è stata feroce. Israele abbatteva palazzi, i miliziani tendevano imboscate ai soldati. È finita con un deserto. E pensare che un tempo questa era la terra fertile di Gaza. Forse non come quella di Beit Hanun, più a nord, che i gazawi chiamavano il “granaio” della Striscia, ma non meno generosa. Qui, a metà strada tra Khan Yunis e Deir al Balah, sulla sponda orientale di al Qarara, era tutta una coltivazione: grano, anguria, zucca, okra. Non è rimasto più nulla, e questo nulla ora ha un nome nuovo, si chiama zona cuscinetto, “buffer zone”, dicono così i militari israeliani: è di fatto un cordone stretto intorno al collo della Striscia, sorvegliato a vista con palloni sonda e droni. Tutto quelle che c’era prima è stato demolito, spazzato.
Entriamo a Gaza intorno a mezzogiorno a bordo di un elicottero dellaRoyal Jordanian Air Force : è il ponte aereo voluto da re Abdullah per portare aiuti alla popolazione civile di Gaza, a cui partecipano anche gli italiani. Atterriamo su un rettangolo di asfalto nero recintato, ai bordi della pista si vedono delle ruspe rosse e nere, sembrano israeliane. «Non filmare niente che non siano gli aiuti e i soldati giordani», ci dice deciso un “volontario” che non si identifica. È arabo, indossa una felpa blu con sopra una pettorina gialla.
All’inizio del conflitto, l’Onu, gli Usa, la comunità internazionale si erano opposti chiedendo a Israele di non mangiare altra terra palestinese. L’esercito aveva assicurato che si sarebbe trattato di una misura di sicurezza temporanea. Quindici mesi dopo, oltre la “buffer zone” si vedono scheletri di palazzi senza finestre e anneriti, alternati a macerie di edifici rasi al suolo.
I soldati scaricano in fretta le scatole, un centinaio, piene di medicinali, saponi, latte in polvere, biberon per bambini, «aiuti urgenti che potrebbero essere danneggiati dal trasporto su camion», spiega il generale di brigata giordano Mustafa al-Hayari. Molti di questi beni sono destinati al nord della Striscia dove i camion di aiuti che entrano da sud, dal valico di Rafah, l’unico aperto, faticano ad arrivare. Una volta ammassate, però, le scatole restano lì, a bordo pista: il World food programme e gli operatori delle altre ong autorizzate a lavorare a Gaza li raccoglieranno solo dopo che il convoglio aereo sarà ripartito. Questo è l’ordine degli israeliani: nessun contatto tra giordani e volontari o palestinesi. Ufficialmente, per evitare assalti alla diligenza, come quelli che ci sono già stati contro i camion di aiuti. Eppure è difficile immaginare come gli affamati possano attraversare questa distesa di desolazione ipersorvegliata per accaparrarsi aspirine o assorbenti. Gli accordi però sono chiari: un gesto fuori dalle regole e l’intera operazione può saltare.
Per Mays Tarboush è un rischioche il suo Paese non può correre. «Questa missione è vitale, e un orgoglio per me. Sono fiera di quello che la Giordania sta facendo, mi riempie il cuore portare aiuti ai palestinesi». A 29 anni, ha fatto in tempo a laurearsi in economia e a diventare pilota dell’aeronautica, membro dell’Air Force di re Abdullah dal 2016. Hijab bianco sotto il casco militare, guida uno dei due elicotteri su cui attraversiamo il confine. Il copilota è Kareem Abu Taleb, 28 anni, anche lui tenente.
Si parte dalla base aerea King Abdullah II a Zarqa, nel deserto giordano, a una quarantina di minuti di macchina da Amman. Dall’alba al tramonto, 16 elicotteri giordani e due dell’esercito italiano fanno la spola verso la Striscia. Il decollo, intorno alle 10, fila liscio, la traversata è più burrascosa. Sorvoliamo il deserto e i canyon fino al sud del Mar Morto. L’elicottero atterra in unavamposto sperduto con pochi soldati e una casetta bianca, senza spegnere i motori, per un primo rifornimento di carburante. Quando riprende quota siamo già sul confine con Israele. Aspettiamo fermi in volo per alcuni minuti che sembrano ore prima di venire “agganciati” da un elicottero israeliano che ci scorta fino a Gaza. Sono le Idf a decidere la rotta, i tempi, i carichi, gli occhi e le orecchie del ponte aereo giordano, e a monitorarlo minuto per minuto. Non senza intoppi: è successo anche che alcuni elicotteri abbiano atteso per 15 minuti e oltre, girando in tondo e bruciando carburante, prima di ricevere luce verde e superare la frontiera. Per re Abdullah è un’operazione costosa ma necessaria.
Stretta tra l’alleanza di ferro con gli americani, e il suo dna palestinese – più della metà della popolazione ha origini o legami con la Palestina – la Giordania è al centro di una crisi potenzialmente esplosiva. Trump pretende si faccia carico di almeno una parte dei palestinesi che, nei suoi piani di restyling del Medio Oriente, dovrebbero essere sfollati da Gaza per tornare dopo la ricostruzione, forse. Ma il regno hashemita si regge su un fragile equilibrio, tra la classe media giordano-palestinese che lavora nelle banche, nel commercio, e i giordani di origini beduine che controllano i servizi, gli apparati, la casa reale. Non può permettersi una nuova ondata di profughi che altererebbe gli assetti etnici e politici. Allo stesso tempo, Amman dipende dagli aiuti americani, circa 2 miliardi all’anno su 50 che vale il Pil del Paese, e per il re sarà difficile dire no a Trump. Alla fine, potrebbe cedere e a certe condizioni accettare una quota di rifugiati, questo almeno è quello che si dice nei circoli diplomatici di Amman. La preoccupazione, in realtà, non riguarda solo o non tanto Gaza, che non è mai stata una “partita giordana”, semmai egiziana. Riguarda la West Bank. Se il presidente americano dovesse appoggiare un piano di annessione parziale della Cisgiordania da parte di Israele, Amman potrebbe essere chiamata ad avere un ruolo, di sicurezza o nell’accoglienza degli sfollati.
Di questo sull’elicottero dellaRoyal Air Force non si parla, ma tutti sanno che è il vero carburante politico che muove questa missione: dare sollievo ai gazawi, rafforzare il cessate il fuoco, tentare i primi passi verso una stabilizzazione. L’atterraggio a Gaza però è impietoso, lascia poche speranze. La distruzione si mostra in tutta la sua nitidezza e riporta alla mente le parole di Steve Witkoff, l’inviato di Trump per il Medioriente, un immobiliarista astuto e svelto che durante la visita in Israele la scorsa settimana ha passato alcune ore in sorvolo sulla Striscia e ne ha tratto una conclusione: «Uninhabitable», inabitabile. «Dovrete accogliere di nuovo i palestinesi?», chiediamo alla pilota Tarboush una volta rientrati alla base. Sorride, non risponde. Ma se c’è una cosa che i giordani pensano è che nessuno accetterà “un’altra Nakba”. Un pilota che ha ascoltato la conversazione la dice così: «Non ci sarà bisogno di accoglierli, perché non se ne andranno da Gaza».