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 2025  febbraio 05 Mercoledì calendario

Non scordiamoci di Alberto Trentini

Un altro italiano che scompare, come di recente Cecilia Sala, solo che stavolta dal buco nero che sembra averlo inghiottito in Venezuela non arrivano segnali di alcun tipo, né motivazioni ufficiali per le quali sarebbe stato arrestato, né dove si trova, come sta (soffre di pressione alta e deve assumere farmaci), in che condizioni è costretto.
S i chiama Alberto Trentini, 45 anni, veneziano, cooperante per studio e professione, una bella faccia buona con i capelli corti, barbetta leggera, occhi chiari, ma il suo volto e il suo nome dicono poco a troppi e sulla sua sorte non sembra montare quell’ondata di partecipazione e di mobilitazione che tante volte è stata decisiva, l’ultima proprio con Cecilia. 
La perdita di qualsiasi contatto con Alberto risale ormai al 15 novembre. Ottanta giorni senza che nessuno abbia potuto vederlo, senza che gli sia stata concessa una telefonata ai genitori Armanda ed Ezio o alla sua compagna, senza che sia stato consentito ad alcuna delle autorità italiane di poterlo almeno incontrare. Il governo di Nicolás Maduro, la cui rielezione nel luglio scorso non è stata riconosciuta da molti Paesi tra cui l’Italia per sospetti brogli elettorali, è una democrazia per finta. Toglie di mezzo i nemici, o presunti tali, senza dare spiegazioni o inventandosele: terrorismo, agenti destabilizzatori, spie al servizio delle opposizioni interne o internazionali.
Laureato in Storia a Ca’ Foscari, master in assistenza a Liverpool e in sanificazione dell’acqua a Leeds, decine di esperienze sul campo (Ecuador, Bosnia, Etiopia, Paraguay, Nepal, Grecia, sei mesi in Perù nel 2017 ad assistere migliaia di famiglie colpite dalle inondazioni) Trentini era in Venezuela da ottobre, coordinatore di una ong francese, «Humanity and Inclusion», prevalentemente dedicata agli aiuti alle persone con disabilità, isole abbandonate nella corrente di un Paese precipitato nella miseria e con 5 milioni di migranti per disperazione. Perché l’hanno arrestato? Perché lo stanno tenendo, come parrebbe, in qualche cella di Caracas e non si sa neanche quale? Perché come Paese veniamo rimbalzati di fronte alla richiesta non soltanto di rilasciare un nostro connazionale, ma persino a quella di poterlo contattare?
Non si può proprio trascurare l’appello che Paola e Claudio, genitori di Giulio Regeni, hanno lanciato da Fabio Fazio durante l’ultima puntata di Che tempo che fa. «La famiglia di Alberto Trentini non ha più notizie dal 15 novembre. Chiediamo che il governo si dia una mossa perché è passato troppo tempo. Vogliamo che questo giovane italiano torni a casa sano e salvo. E venga rispettato come portatore di pace». 
Loro che conoscono l’angoscia e il dolore per la perdita di un figlio in terra straniera per ragioni mai chiarite; loro che da 9 anni, dal 3 febbraio 2016, hanno dedicato ogni stilla dell’energia vitale rimasta per ottenere la verità e quindi la giustizia per lo scempio che è stato fatto del loro Giulio in una prigione egiziana; proprio loro hanno sentito il dovere di spendersi per un altro italiano, che come Giulio, Cecilia e tanti altri e altre, vanno in giro per il mondo per raccontarlo, per capirlo, per aiutare, per fare del bene. Evitare con ogni mezzo che si ripetano tragedie come quella che ha devastato il ricercatore Giulio Regeni: firmato da chi quella tragedia la porterà sulle spalle e nel cuore per sempre.
Forse queste parole, e la credibilità di chi le ha pronunciate, hanno spinto ad accelerare la marcia della nostra diplomazia. Il terreno è minatissimo, l’interlocutore non appare tra i più affidabili, una mossa improvvida può fare precipitare la situazione e chi, malauguratamente, ci si trova dentro. L’avvocato che si occupa di Alberto Trentini è lo stesso di Giulio, Alessandra Ballerini, e anche questa è una garanzia che ogni passo verrà tentato, con coraggio ma anche con la necessaria sapienza. Ma l’elemento decisivo, pur rispettando la raccomandazione del ministero degli Esteri di non entrare nei dettagli, è che la vicenda esca dall’anonimato e diventi quello che è: un caso nazionale, che sta a cuore alla nazione. La petizione per il suo rilascio, organizzata da Change.org, ha raggiunto le 40 mila firme: ne servirebbero il doppio, il quadruplo. 
Se Cecilia Sala è già tornata al lavoro dopo i 21 giorni di incubo in una prigione iraniana, lo si deve in parte anche a questo, cioè all’azione forte di un governo, sostenuto da una spinta altrettanto forte dalla base del Paese.
Nel fine settimana il Comune di Bologna esporrà uno striscione per la libertà di Alberto Trentini, confidando che altri Comuni seguano l’esempio come fu per Patrick Zaki, che proprio Bologna mai dimenticò durante la sua detenzione. E sabato ci sarà una fiaccolata davanti alla chiesa di Sant’Antonio al Lido di Venezia, sperando che il riflesso di quelle luci arrivi in qualche modo a illuminare il muro di omertà costruito intorno a un cooperante molto esperto, descritto da tutti come accogliente, preparato, spiritoso, il contrario dell’avventuriero. Non riuscire a salvarlo da un destino tremendo e ingiusto sarebbe una resa a chi i portatori di pace preferibilmente li sopprime.