la Repubblica, 4 febbraio 2025
Come ebbe inizio la monda del mindfulness
Nel 1964, in piena guerra del Vietnam, un giovane monaco buddista fu arrestato e torturato per la sua attività pacifista, considerata sovversiva perché equidistante rispetto alle due fazioni impegnate nel conflitto. Con l’aiuto di altri monaci e di alcuni laici il giovane bonzo aveva infatti fondato i “piccoli corpi di pace” che si adoperavano per ricostruire i villaggi bombardati, creare scuole di consapevolezza e impegno pacifista e attrezzare ospedali da campo in cui curare i feriti di ambo le parti. Una forma di “buddismo impegnato”, come egli stesso lo definì, che gli valse l’espulsione dal proprio Paese. Trasferitosi in Francia, proseguì lì la sua missione sino a partecipare personalmente ai trattati di pace: il suo nome era Thích Nhãt Hanh (1926-2022).E proprio dalla Francia, nel 1975, decise di scrivere una lettera a suo fratello Quang, che in sua assenza, era divenuto il principale responsabile della School of Youth Social Service nel Vietnam del Sud, per ricordargli i principi del suo insegnamento. Com’era sua abitudine Thay, come lo chiamavano monaci e allievi, fece leggere il testo ad alcuni dei suoi più stretti collaboratori per riceverne un riscontro. I monaci pensarono che si trattasse di un testo così riuscito e semplice da non poter essere riservato ai soli allievi della scuola vietnamita. In particolare, la monaca buddista Mobi Ho, vi riconobbe un testo divulgativo degno di essere pubblicato e si propose personalmente di tradurlo in inglese.Nella sua lettera, che costituiva un vero e proprio saggio breve, Thích Nhãt Hanh riprendeva l’antico Anapanasati Sutra nel quale il Buddha spiegava la pratica della presenza mentale (sati )attraverso il respiro (napana ), per proporne l’estensione a tutti i momenti della vita, senza confinarla alla meditazione strettamente intesa: la cosiddetta pratica formale. Per tradurre satiMobiHo utilizzò il termine mindfulness : ebbe così inizio quella che nel 2014 ilTimes definirà la “mindful revolution” del nostro tempo. Uscito esattamente cinquant’anni fa,Il miracolo della presenza mentale, editoin Italia da Ubaldini, può dunque essere considerato il principale strumento della diffusione, non solo del termine mindfulness, divenuto via via un concetto sempre più elastico, ma anche di una specifica pratica meditativa, schiettamente laica e trasversale rispetto alle diverse culture e tradizioni spirituali del nostro pianeta, di straordinario successo. Pur riconoscendosi debitrice dell’esperienza buddista, in particolare della meditazione vipassana, lamindfulness si propone come una pratica per tutti, indipendentemente da appartenenze e convinzioni religiose, spirituali o filosofiche, che consiste nel portare attraverso il respiro l’attenzione al momento presente, non per astrarsi dal mondo,ma per entrarvi consapevolmente, esattamente come invitava a fare il maestro vietnamita. Alcuni cultori di diverse traduzioni buddiste storcono un po’ il naso di fronte all’evoluzione di questa millenaria pratica che si presenta come sradicata da una specifica appartenenza e che può essere sperimentata ovunque, senza bisogno di osservare particolari riti o rifarsi a specifici precetti dottrinali. Tuttavia proprio in questo, seppur inconsapevolmente, tale specifica pratica della consapevolezza sembra cogliere l’essenza del buddismo che nel corso dei secoli ha conosciuto innumerevoli trasformazioni, senza dimostrare particolari attaccamenti a ortodossie o identità, per riconoscersi come l’acqua, a cui spesso viene paragonato, che assume di volta in volta la forma dei diversi contenitori che l’accolgono, ben consapevole che l’impermanenza di tutte le cose, riguarda anche le formule storiche che le culture si danno e che in ultima analisi non sono che sterili tentativi di dare un nome a un’esperienza che le parole non possono mai esprimere del tutto.Ciò che oggi va sotto il nome di mindfulness, costituisce uno specifico metodo di meditazione codificato da Jon Kabat Zinn, biologo e scrittore statunitense, professore emerito di medicina e fondatore, nel 1979, della Stress Reduction Clinic e del Center for Mindfulness in Medicine, all’Università del Massachusetts. Newyorchese di nascita, Kabat Zinn ha integrato i principi del buddismo e della meditazione vipassana, con le sue conoscenze scientifiche e con l’approccio pragmatico della mentalità occidentale, valorizzandone soprattutto i benefici in chiave medico-terapeutica. Capace di aumentare la capacità e la qualità della concentrazione e dell’attenzione, di ridurre l’ansia e lo stress, di migliorare il sonno, di aumentare tanto le prestazioni cognitive, quanto l’intelligenza emotiva. Facilitata da una maggiore conoscenza dei propri stati d’animo fiduciosamente sottoposti ad autoindagine, lamindfullness appare pertanto una risorsa anche contro quel particolare disagio da sovracollegamento e sovraesposizione agli schermi dei pc e degli smartphone, che da psicologico rischia di trasformarsi in neurologico e che l’Università di Oxford ha tristemente celebrato scegliendo brain rot, la marcescenza del cervello, come parola dell’anno. Sebbene alcuni sostengano che ponendo l’attenzione sugli effetti benefici che produce, strizzando l’occhio al vasto mercato del wellness, la mindfulness tradiscauna ben più profonda missione etica, appare evidente che questa strada, organizzandosi secondo un preciso protocollo certificato dalla Global Mindfulness Collaborative – che riconosce analoghe associazioni nazionali in tutto il mondo Italia compresa – stia riscuotendo un enorme crescente successo. Ma in gioco, si può obiettare, non c’era l’illuminazione, ilsamadhi, il raggiungimento del nirvana? Sì certo ma tutto questo, è la risposta, passa per i piccoli gesti. Nella sua lettera-saggio Thích Nhãt Hanh parlava di imparare a esercitare la presenza mentale mentre si lavano i piatti, si fanno i compiti con i figli, si svolge qualsiasi ordinaria attività. «Il vero miracolo», scriveva, «non è camminare sulle acque o assurgere in cielo, ma camminare consapevolmente sulla terra», vivere pienamente il momento presente, con amore e vigile attenzione a ciò che è, proprio mentre lo si vive, sentendosi in relazione profonda e compassionevole con il tutto, in ogni sua singola manifestazione.Un principio non esclusivamente legato alla visione del mondo buddista, che la mindfulness condivide e promuove esplicitamente e di cui non è difficile avvertire la necessità oggi. Del resto lamindfulness, come recitano i suoi siti ufficiali riportando le parole del loro fondatore, non intende frammentare o decontestualizzare la tradizione buddista che la ispira, ma ricontestualizzarla per permettere a chiunque di sperimentare i benefici di un’antica saggezza, senza aderire ad un particolare credo. Fu lo stesso Buddha storico, del resto, ad invitare a non credere al suo insegnamento ma a praticarlo personalmente per poi decidere se abbracciarlo o rigettarlo. Ed è forse questo il suo segreto: essere non un’ortodossia ma una ortoprassi che si fa progressivamente stile di vita, un esercizio costante che chiede semplicemente di essere praticato, senza giudizio né principi di prestazione, per imparare ad accogliere quel che c’è così com’è, nel riconoscimento dell’interdipendenza di ogni forma di vita da tutti e dal tutto che ne intesse l’ordito. È questo il miracolo della presenza mentale.